Antropologia delle società complesse X

MEMORIA AUTONARRAZIONE E IDENTITA’

 Nel 1995 viene ad esempio pubblicato in Germania un libro destinato a destare molto scalpore. Si tratta di Bruchstücke (Frammenti), ed è la storia dell’infanzia di un piccolo ebreo – Binjamin Wilkomirski –, sballottato attraverso gli orrori dell’Europa nazista tra il 1939 e il 1948, narrata dall’autore stesso.

In breve tempo il libro si impone all’attenzione della critica come un vero e proprio capolavoro sulla Shoah. Viene tradotto in diverse lingue, il suo autore viene invitato presso grandi università e prestigiosi centri di ricerca internazionali, suscitando ovunque una grande commozione nel suo sempre più numeroso pubblico, attratto e coinvolto dalla straordinaria partecipazione emotiva di questo sopravvissuto alle prese con la storia del proprio drammatico passato.

Un bel giorno, però, un’inchiesta scaturita da una lettera inviata da un giornalista all’editore tedesco Suhrkamp, comincia a far insinuare un clamoroso dubbio: quel passato di cui si narra nel libro, non corrisponderebbe a quello del suo autore. In altri termini, Binjamin Wilkomirski non sarebbe in realtà chi sostiene di essere, bensì un impostore che risponderebbe al nome di Bruno Dössekker, un anonimo musicista svizzero. Trascorsa una breve pausa di indignazione per tali insinuazioni, l’autore decide di rispondere alle sempre più pressanti richieste di chiarimento da parte dell’opinione pubblica, precisando che in realtà i suoi genitori adottivi, una coppia di svizzeri benestanti – i Dössekker, appunto – avevano effettivamente provveduto a questa falsificazione di identità al fine deliberato di cancellare ogni possibile traccia di quell’orrendo – ma autentico! – passato di cui egli narra nel libro.

Sulle prime non ci furono in effetti molte difficoltà a rendere credibile tale versione dei fatti: si trattava di un’operazione amministrativa di modifica delle generalità alla quale erano stati sottoposti centinaia e centinaia di figli di deportati, a fini semplicemente protettivi. Ciononostante, pur di rendere sempre più trasparente l’intera vicenda, l’editore tedesco richiede ulteriori approfondimenti, dando il via ad una serie di nuove indagini che, imprevedibilmente, finiranno però per rendere sempre più traballante la versione proposta dall’autore.

Credendo di porre un punto finale alla vicenda, Wilkomirski/Dössekker decide allora di aggiungere un poscritto al suo libro, che desterà non poco scalpore: “Durante la mia infanzia mi è stata attribuita una nuova identità. Un nuovo nome, un’altra data di nascita e un altro luogo di nascita. Secondo il certificato che ora ho tra le mani – egli afferma – io sarei nato il 12 febbraio 1941. Tale data, però, non corrisponde né alla storia della mia vita, né ai miei ricordi. Ho anche provato a fare ricorso alla giustizia contro questa identità arbitraria. La verità legalizzata è una cosa, quella di una vita è un’altra”.

A partire da allora, liberato oramai il tarlo del sospetto, cominciano a susseguirsi una lunga serie di ulteriori inchieste giornalistiche e giudiziarie, in base alle quali cominceranno ad accumularsi dati, testimonianze e documentazioni che condurranno infine all’emergere di una versione della storia assai sorprendente e ben diversa da quella fino ad allora conosciuta.

Ciò che risulterà sarà infatti che fino al 1979 l’autore del libro era stato un “semplice” cittadino svizzero, figlio adottivo di una coppia come tante altre. Alla ricerca delle sue radici, Bruno aveva finito per appropriarsi – a causa di una complessa serie di circostanze – di una nuova identità: da allora aveva cominciato a farsi chiamare Binjamin, a riconoscersi giorno per giorno sempre più nelle proprie (anche se solo ipotetiche!) radici ebraiche, aveva cominciato ad andare alla ricerca dei suoi genitori (ad un certo punto della vicenda ci sarà anche un vero e proprio riconoscimento di paternità da parte di un ebreo sopravvissuto alla Shoah) e del vero luogo della sua presunta nascita. A seguito di una cura psicoterapeutica – che a quanto pare risulterà essere determinante ai fini di alcuni dei più clamorosi risvolti assunti dalla vicenda – a partire dagli inizi degli anni Novanta cominceranno anche a riaffiorare in lui una serie di ricordi relativi alla sua infanzia nei campi. Da allora Bruno si convincerà sempre più a fondo di essere in realtà Binjamin, un sopravvissuto di Auschwitz.

Quando, in un modo o nell’altro, tutto sembra cominciare a spiegarsi, da una delle tante inchieste parallele emerge però ancora un’altra versione dei fatti: la nuova pista condurrebbe addirittura alla scoperta di un’altra origine dell’autore di Frammenti. Egli sarebbe nato in Svizzera, a Biel, da una madre celibe che, a causa di problemi personali, lo avrebbe dato in adozione ai Dössekker. Il suo nome originario sarebbe Bruno Grosjean e la data di nascita lo stesso 12 febbraio 1941, così come già attestato dai documenti ufficiali presentati dallo stesso autore. A questo punto i tentativi di rendere compatibili le versioni precedenti con quella emersa diventano sempre meno credibili. Si è in presenza di una vera e propria versione menzognera, che subisce un definitivo colpo di grazia dalla testimonianza diretta di un’altra sopravvissuta ai campi, Karola, una giovane donna che il piccolo (autentico!) Binjamin aveva conosciuto ad Auschwitz. Karola è categorica: la storia della deportazione tracciata nel libro non è altro che una versione un po’ fantasiosa della sua stessa storia che in un’occasione lei aveva raccontato al giovane Dössekker.

Bruno non è Binjamin, ma solo un musicista svizzero che lei aveva effettivamente incontrato casualmente su un treno, nel lontano 1971. Mescolando i ricordi della sua infanzia autentica da orfano, con le testimonianze di altre infanzie sopravvissute ai campi e con eventi tratti presumibilmente da film e documentari sulla Shoah, Bruno era diventato a poco a poco il romanziere della sua stessa scomparsa, l’autore e il personaggio principale di un racconto fortemente drammatico.

Per poter sopravvivere psicologicamente il musicista si era così ben incorporato nel proprio racconto da apparire come un’incarnazione vivente di questo libro unico, finendo con l’agire più che come un soggetto attivo del proprio disegno menzognero, come una sorta di oggetto passivo della propria falsificazione, soggiogato dal suo stesso inganno: “la creatura – insomma – aveva superato il suo creatore”.

L’editore tedesco finirà per ritirare il libro dal commercio, e il caso passerà ai tribunali. Ciò che però mi sembra assai significativo ed esemplare ai nostri fini è qualcos’altro. Mi sembra infatti, questa, una vicenda molto adatta a creare un ponte tra le diverse interpretazioni finora discusse a proposito della teoria sociologica dell’identità. Se, da una parte, si tratta di una storia di impostura e di sostituzione identitaria molto simile a quella del già citato Martin Guerre, essa presenta anche non poche assonanze con dei veri e propri casi patologici, come quelli studiati da Lurija. Più significativo ancora mi sembra però il modo in cui emerge l’intensa complessità del rapporto tra memoria, autonarrazione e identità.

Indipendentemente dalla “buona fede” dell’autore stesso nella gestione dell’intera vicenda, non si può non sottolineare la presenza di un fenomeno molto noto agli specialisti: l’atteggiamento che caratterizza molti orfani e bambini adottati i quali, crescendo, vengono lacerati dalla curiosità per le loro autentiche origini. Si tratta di una “fame di genealogia” che molti studiosi non temono a definire “insaziabile”.[ii] E molto spesso a guidare sempre più indietro la ricerca di un passato e di un’origine non è soltanto il bisogno di sapere, quanto soprattutto un bisogno di raccontare e di raccontarsi.

In questo caso, posti di fronte ad una scelta, quali sono i criteri da adottare per decidere quale tra le identità emerse, sia quella più “reale”?

Ripercorriamo più dettagliatamente alcuni momenti della vicenda: abbiamo innanzitutto tre cognomi e due nomi (Binjamin Wilkomirski, Bruno Dössekker e Bruno Grosjean) per un solo corpo. Oggettivamente, all’anagrafe, Binjamin Wilkomirski non è mai esistito. O meglio, se è esistito (come è assai probabile), non può essere messo in relazione al corpo di Dössekker/Grosjean. Sempre da un punto di vista anagrafico e istituzionale, è possibile rilevare una coerenza identitaria tra gli altri due. L’individuo dichiarato all’anagrafe come Bruno Grosjean, ha ricevuto, per motivi legittimi e certificati, una sostituzione di cognome. Fin qui tutto chiaro.

Subentra però adesso il secondo momento che caratterizza la costruzione sociale dell’identità: la percezione soggettiva di colui che possiede e gestisce quell’unico corpo, è assolutamente estranea da ogni possibile riferimento a Bruno Grosjean. La sua identità è basata sulla costruzione di una coerenza tra un Binjamin Wilkomirski che, in un secondo momento, viene modificato in Bruno Dössekker.

Se ci si affida alle testimonianze di Karola e della madre naturale (Grosjean), entrambe ancora vive, sembrerebbe non esserci dubbio: Bruno Dössekker è un nome diverso che serve ad identificare quello stesso individuo che una volta si chiamava Bruno Grosjean. In tal caso questa stessa persona non sarebbe altro che un impostore da biasimare e, forse, anche da rinchiudere in un apposito istituto di detenzione per criminali (se non per psicopatici). Se però lasciamo aperto il dubbio al peso dei ricordi, della memoria e della ricostruzione fatta, a quanto pare, in buona fede e con l’aiuto di validi psicoterapeuti (se insomma decidiamo di affidarci anche alla percezione soggettiva del Sé), allora l’interpretazione può essere diversa: l’individuo che oggi viene istituzionalmente identificato con il nome di Bruno Dössekker, una volta si chiamava Binjamin Wilkomirski.

Avvezzi a tutte le possibili straordinarie avventure del Doppio che hanno contribuito a forgiare, attraverso la letteratura, il nostro immaginario collettivo, sembra quasi di trovarsi di fronte alla trama di un romanzo di un E.T.A. Hoffmann, o di un Chamisso, uno Stevenson, di un Oscar Wilde, se non di Poe, Dostoevskij o Kafka. Eppure non si tratta di fiction. Così come – sempre a proposito di Doppelgänger – non è una fiction la straziante storia di Jean-Claude Romand raccontata da Emmanuel Carrère in un bel volume che, ad oggi, ha direttamente ispirato non meno di tre riuscitissime opere cinematografiche.

Siamo agli inizi del 1993. I fatti si svolgono nella regione di Gex, nella provincia francese al confine con la Svizzera, in una cittadina residenziale a pochissimi chilometri da Ginevra. Jean-Claude Romand è un affermato ricercatore che ricopre una posizione di prestigio nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra, padre affettuoso di due bambini, Caroline e Antoine, di sette e cinque anni, nonché marito pressoché esemplare della bella e sempre sorridente Florence, che lavora in una farmacia del paese. Una bella famiglia, insomma, assolutamente normale e benvoluta da tutti. Tra i co-protagonisti dell’inquietante vicenda figurano anche i genitori di lui, quelli della moglie, alcune comparse e, soprattutto, il migliore amico del dott. Romand – Luc Ladmiral – anch’egli medico e anch’egli sposato con figli. Le due famiglie, come è ovvio, sono molto unite e si frequentano spesso. Luc non è peraltro “un” amico come tanti; egli è l’amico per eccellenza, quello che ha condiviso con lui i segreti più intimi dell’adolescenza e degli studi universitari; quello che gli è stato vicino nei momenti più intensi di gioia e di sofferenza; insomma i due rappresentavano l’un per l’altro quello specchio nel quale veder riflessi gli aspetti più profondi del proprio Sé, quelli che casomai avresti difficoltà a svelare anche a te stesso. Almeno questo è ciò di cui Luc era convinto!

Poi la tragedia! La casa dei Romand prende fuoco. I soccorritori portano fuori ad uno ad uno i quattro componenti della famiglia, tutti gravemente ustionati. Tutti morti, tranne uno, Jean-Claude, che riuscirà alla fine a sopravvivere. Ma non è tutto: alcune ore dopo la polizia scopre che anche i genitori del dott. Romand, e il loro cane, sono morti. Di lì a qualche giorno un’altra, sconvolgente, macabra scoperta: nessuna delle morti in questione risulta essere accidentale. Gli inquirenti si trovano di fronte ad una serie di omicidi. Le prove sono schiaccianti, l’assassino è proprio Lui! Il dott. Romand sulle prime oppone una strenua resistenza, poi crolla e confessa di aver brutalmente ucciso la moglie, i due bambini, il padre, la madre e il loro cane. Successivamente, aveva dato fuoco alla propria casa, in un disperato e maldestro tentativo (ma sulle sue “reali” intenzioni permangono tuttora molti dubbi) di suicidio.

Come è potuto accadere? Gli inquirenti cercano di far luce sul passato di Romand per venirne a capo; gli amici e i conoscenti – in particolare Luc – credono di star vivendo un incubo dal quale prima o poi si sveglieranno. Non si era forse illuso, e con lui tutti i suoi concittadini, che fosse sufficiente una professione ben remunerata, una famiglia serena, una bella macchina da sostituire periodicamente, delle vacanze rilassanti, per potersi sentire “normali” e al sicuro dall’aggressione di ogni possibile violenza irrazionale? Cosa c’era allora dietro al dott. Romand, nascosto dentro di lui? I giornalisti si scatenano, alla ricerca di risposte esaurienti. Si avanzano delle fragili, benché razionali, ipotesi, che puntualmente vengono smentite. Allora un’unica possibilità resta plausibile, il ricorso al capro espiatorio della “doppia identità”, della “follia” celata dietro la parvenza normale dell’irreprensibile dottore. Possono risultare pertinenti in questo caso le parole che Paolo Crepet ha utilizzato per introdurre l’analisi foucaultiana di un’altra vicenda simile, verificatasi in Francia quasi due secoli prima, il celebre caso di Pierre Riviére: «quando un ragazzo – egli scrive – uccide senza motivo, ecco scattare l’alibi di un Dna patologico o di qualche condotta impulsivo-compulsiva che assomiglia a un “raptus”. Già, il raptus; come farebbero i giornalisti a spiegare quell’assassinio se non utilizzando questa parola che contiene la più vergognosa auto-assoluzione di massa? Il “raptus” (come il determinismo biologico o psicoanalitico) assolve tutti perché promette di trovare una vera e unica causa (il capro espiatorio) per quegli atti inumani, così non c’è e non si deve ricercare alcuna correità nella famiglia, nella scuola, nel quartiere, negli amici: tutti felicemente assolti».

Ma Luc, l’amico, il vero amico, non ci sta! Collabora con gli investigatori e con lo straordinario Emmanuel Carrère, contribuendo a far venire alla luce almeno alcuni di quegli eventi chiave, di quei turning point che, nell’esistenza di ognuno di noi, possono determinare un percorso esistenziale piuttosto che un altro. Forse ciò che ne è venuto fuori, le spiegazioni che emergono dalle ricostruzioni effettuate, non aderiranno perfettamente alla cosiddetta realtà storica, ciononostante – così come nel caso di Binjamin – quello che maggiormente conta nella formazione di un’identità è soprattutto il sentimento di coerenza e di adeguatezza del proprio Sé soggettivo rispetto alle istanze oggettivamente attese.

Ancora una volta quell’insaziabile bisogno di raccontare e di raccontarsi riaffiora imperioso. «Mediante la narrativa costruiamo, ricostruiamo, in certo senso perfino reinventiamo, il nostro ieri e il nostro domani. La memoria e l’immaginazione si fondono in questo processo. Anche quando creiamo i mondi possibili della fiction, non abbandoniamo il familiare, ma lo congiuntivizziamo trasformandolo in quel che avrebbe potuto essere e in quel che potrebbe essere. La mente umana, per quanto esercitata sia la sua memoria o raffinati i suoi sistemi di registrazione, non potrà mai recuperare totalmente e fedelmente il passato. Ma nemmeno può sfuggirgli. La memoria e l’immaginazione servono da fornitori e consumatori delle reciproche merci».

Ed è pressappoco ciò che accade con la ricostruzione della vita di Jean-Claude Romand.

Nei giorni successivi alla tragedia viene ritrovato un biglietto d’addio con il quale Jean-Claude chiedeva scusa e, tra l’altro, scriveva: “Un banale incidente, un’ingiustizia possono provocare la follia”. Diventava quasi un dovere ricercare quell’evento scatenante, individuare quel punto di svolta nella vita dell’assassino. Durante il dibattimento in aula, l’imputato Romand ricostruisce la genesi della sua follia muovendo dal giorno a partire dal quale in lui si sarebbe insinuato un altro “io”; dal momento in cui aveva intrapreso la strada della menzogna senza poterla più abbandonare. Si tratta del giorno di un fatidico esame all’università, preceduto da una caduta per le scale che gli aveva procurato una frattura del polso: un “banale incidente”, appunto.

 «Il mattino dello scritto le lancette della sveglia hanno segnato in sequenza l’ora in cui si sarebbe dovuto alzare, l’ora d’inizio delle prove e l’ora della fine. Lui è rimasto a guardarle, steso sul letto. Dopo aver consegnato i compiti, gli studenti si sono ritrovati all’uscita dell’aula o ai tavolini dei bar per chiedersi com’era andata. Nel primo pomeriggio i genitori di Jean-Calude gli hanno telefonato per rivolgergli la stessa domanda, e lui ha risposto che era andata bene. Nessun altro l’ha chiamato.

Fra il giorno dell’esame e l’esposizione dei risultati, sono passate tre settimane. Tutto era ancora in sospeso. Poteva ancora confessare di aver mentito. Naturalmente non sarebbe stato facile, doveva costare moltissimo a un ragazzo serio come lui riconoscere di aver commesso una simile bambinata (…). Da una parte c’era la strada normale, quella che seguivano i suoi amici, gli studi per cui, come tutti confermano, aveva attitudini leggermente superiori alla media. Dall’altra, c’era il sentiero tortuoso della menzogna. (…). Non sostenere un esame e affermare di averlo passato è una sfida audace, il rilancio azzardato di un giocatore. L’esito non può che essere negativo: essere smascherati quanto prima e scacciati dall’università coprendosi di infamia e di ridicolo, le due cose al mondo che più lo spaventavano. Eppure esisteva un’ipotesi peggiore: proprio quella di non essere scoperto. Ma come poteva immaginarlo? Come poteva immaginare che quella bugia puerile lo avrebbe portato diciott’anni più tardi a massacrare i suoi genitori, Florence e i figli che ancora non aveva?»

 Da allora in poi, secondo quella che oggi appare come la ricostruzione più verosimile della vita di Jean-Claude Romand, era cominciata la sua doppia vita. Per diciotto anni aveva mentito a tutti: aveva finto di essersi laureato, poi aveva cominciato a fingere di andare al lavoro, si era sposato, aveva messo al mondo due figli, aveva continuato ad intrattenere relazioni più o meno profonde con amici, parenti, colleghi mostrando a tutti un versante puramente convenzionale di sé. «Di norma – commenta Carrère – una bugia serve a nascondere una verità, qualcosa di vergognoso spesso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand».

Per diciotto anni aveva finto, tutte le mattine, di andare al lavoro o di partire per un viaggio d’affari, mentre invece trascorreva il suo tempo chiuso in auto a leggere giornali o a passeggiare nei boschi; per diciotto anni, al fine di mantenere un tenore di vita compatibile con il rango della sua falsa identità, aveva spillato grosse somme di denaro a parenti ed amici con il pretesto di investirli per loro in una banca Svizzera. Talvolta era stato sul punto di dover far fronte a qualche richiesta di rimborso, ma alla fine era riuscito sempre a cavarsela, grazie alla menzogna, con una certa abilità. Negli ultimi tempi (e a quanto pare questa vicenda avrà una funzione significativa nel determinare il crollo nervoso finale) aveva intrapreso una relazione amorosa abbastanza seria ed appassionata con Corinne, una vecchia ed affascinante amica, ed anche da lei era riuscito a farsi consegnare del denaro, mentendo spudoratamente per lungo tempo, senza tradire la benché minima difficoltà.

Al termine del processo Jean-Claude Romand verrà condannato all’ergastolo, con ventidue anni di misura di sicurezza. Certamente, insomma, non uscirà di prigione prima del 2015, all’età di sessantun anni. Ma questo è, ai fini del nostro discorso, pressoché irrilevante. Può invece essere piuttosto pertinente e utile riportare, a conclusione di questa riflessione sullo straordinario caso dell’Avversario, alcuni brani tratti da uno scambio epistolare intervenuto già a processo chiuso, tra Emmanuel Carrère e lo stesso Jean-Claude Romand:

 Carrère (21/11/96): «(…). Il nemico da vincere è la sua capacità di accedere a se stesso, quel vuoto che ha continuato a crescerle dentro precludendole la possibilità di dire “io”. È chiaro che non spetta certo a me dire “io” a nome suo, perciò non mi resta che dirlo a nome mio, parlando di lei».

Romand (10/12/96): «(…). Arrivo a intuire fino a che punto sia essenziale sentire dentro di me una parola che trovi conferma e risonanza in chi mi ascolta. Il fatto che lei non riesca a parlare della mia storia in prima persona mi sembra in parte legato alla difficoltà che ho io a parlare di me stesso in prima persona. Anche se riuscirò a ottenere questo risultato, sarà troppo tardi, ed è terribile pensare che se avessi avuto accesso all’”io” e di conseguenza al “tu” e al “noi” a suo tempo, avrei potuto dire tutto quello che avevo da dire senza che la violenza rendesse poi il dialogo impossibile».

 Al di là dei casi specifici che ho provato a sintetizzare attraverso questi esempi, risalta in entrambe le vicende il peso determinante che il bisogno di raccontarsi in modo coerente, agli altri, ma forse soprattutto a se stessi, può svolgere nell’ambito del processo di costruzione di ogni identità. Un’importanza molto spesso sottovalutata, a favore di altre componenti ritenute centrali per l’elaborazione di una coerenza identitaria, e che va ben al di là dei singoli casi più o meno fraudolenti, se non patologici, cui di tanto in tanto veniamo a conoscenza personalmente o attraverso casi di cronaca.

D’altra parte sono tanti i personaggi che nel corso della nostra esistenza conosciamo soltanto “indirettamente”, ovvero solo grazie alle mediazioni di “altri”, sia che questa mediazione avvenga attraverso il contributo dei racconti di persone in carne ed ossa, sia che si verifichi attraverso meri strumenti tecnologici, come può essere la scrittura (e quindi la lettura di un diario o di una lettera riferite alla persona in questione), la fotografia, la registrazione audio e/o video.

Va dunque prestata la massima attenzione al fatto che l’influenza maggiore o minore che tali personaggi potranno avere per la costruzione della nostra identità, non dipenderà tanto dai rapporti fisici che potremmo o meno intrattenere con essi, ma da un altro genere di rapporto, che possiamo definire anch’esso di tipo narrativo. I nomi di alcuni celebri personaggi letterari – ad esempio un Aureliano Buendia, un Artemio Cruz o un Gregor Samsa – ci rinviano ad individui la cui conoscenza è per molti di noi molto più “reale” di quanto non lo sia, ad esempio, quella di un parente non conosciuto direttamente, de visu, come potrebbe essere il caso di uno zio vissuto sempre all’estero, o di un nonno morto prima della nostra nascita.

La narrazione, come abbiamo già ricordato, può essere definita come la rappresentazione di un evento o di una serie di eventi. Ora, la differenza tra gli eventi e la loro rappresentazione è la stessa che esiste tra una storia (l’evento, appunto o la sequenza di eventi) e un discorso narrativo (il modo in cui la storia viene rappresentata). Facendo un passo in avanti, al di là delle definizioni, è possibile in un certo senso sostenere che noi non possiamo mai avere alcuna esperienza diretta di una storia, ma possiamo accedervi soltanto attraverso un discorso narrativo; in altri termini, una storia è sempre una storia ‘mediata’ – da una voce, da uno stile di scrittura, da una determinata angolazione della camera da presa, dall’interpretazione degli attori – il che significa che ciò che noi chiamiamo storia è in realtà sempre qualcosa che noi (o qualcuno per noi) abbiamo costruito. La storia è sempre costruita e mediata da un discorso di tipo narrativo. Allo stesso modo, a costo di rischiare qualche forzatura, è possibile sostenere che anche l’accesso alla personalità di coloro con cui interagiamo nel corso della nostra esistenza è in prevalenza mediato narrativamente. Anzi – ed è questo uno dei punti essenziali – si può dire che lo stesso vale anche per l’esperienza della conoscenza che noi facciamo di noi stessi attraverso il discorso autobiografico.


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Antropologia delle società complesse IX

La Cibernetica e le origini dell’Homo communicans

L’origine ed il successo della nuova “società della comunicazione” costituirebbero la reazione e la ridefinizione costitutiva della modernità.

Originatosi nei tormenti di una lunga guerra mondiale e nei soprassalti di un drammatico degrado del legame sociale, il ricorso universale alla comunicazione si lega così a specifiche circostanze storiche, che gli conferiscono senso e portata sociale.

Secondo lo studioso francese Philippe Breton tre grandi tappe ne segnano lo sviluppo, uno sviluppo che, a partire proprio da quegli anni, coinvolge tutta la società in una spirale nel contempo unificante e generalizzante.

La prima tappa va a collocarsi in seno alla nascita della Cibernetica, disciplina o per meglio dire insieme di discipline, esplicitamente votate alla ricerca delle leggi generali della comunicazione, sia che interessino fenomeni naturali, sia che riguardino le macchine, gli animali, gli uomini o le società. Loro obiettivo è la costruzione di un campo interdisciplinare che unifichi sotto lo stesso nome un insieme di fenomeni già noti, nei campi della neurofisiologia, della telefonia, della matematica, della fisica e dell’antropologia.

Lo sviluppo della Cibernetica ha portato, in una seconda fase, alla nascita della nuova nozione di comunicazione e a una reinterpretazione del campo disciplinare. Norbert Wiener, uno dei fondatori di questa rete iniziale, sottolinea con la sua esplicita volontà l’estensione della nozione di comunicazione al campo d’analisi e poi dell’azione politica e sociale. Parallelamente, l’uso di questa nozione continuava a svilupparsi e ad arricchirsi, ad esempio con la teoria dell’informazione di Shannon, che diviene la seconda tappa fondamentale per l’epistemologia contemporanea, risolvendo i fenomeni in reti di relazioni.

Tuttavia l’immediato dopoguerra si pone come terza e decisiva fase, non intesa a livello lineare o cronologico, nella storia della comunicazione moderna, che si compie in un rapporto diretto con l’evoluzione della società occidentale, segnata in profondità dal secondo conflitto mondiale. Qui nasce un’esigenza di riscatto, determinata da una perdita di punti di riferimento e testimoniata da questa rovinosa condizione del dopoguerra dove: “tutto viene messo in discussione”. È in quest’ottica che lo sviluppo dei mezzi di comunicazione appare come priorità; promuovendo nuove concezioni, in cui questo sviluppo figura come una necessità funzionale al sistema, fornendone un quadro di apertura globale.

Accanto alla crisi ideologica si pone, nello stesso tempo, l’esigenza di un valore che sia motore trainante per il mutamento di una società basata proprio sulla trasparenza comunicativa: «ormai nulla deve accadere in un angolo oscuro dell’umanità, così non esisterà più l’oscuro segreto nel quale è stato preparato il genocidio nazista». La comunicazione, trasparente ed immanente che soddisfa bisogni sociali, diventa un’ossessione che costituisce una risposta perfetta alla crisi del ventesimo secolo.

L’originalità di questo nuovo paradigma della comunicazione è testimoniata da un nuovo modo di fare scienza, da una nuova definizione dell’uomo, dall’introduzione di alcune nozioni che hanno alimentato le nuove teorie delle scienze della comunicazione. Wiener, precursore di tale paradigma, critica dapprima il metodo funzionale delle scienze classiche, sostenendo che non è soddisfacente poiché si interroga esclusivamente sul contenuto dei fenomeni di cui la scienza si occupa sul versante interno degli oggetti: «Le relazioni che si interporranno tra i fenomeni contano più di ciò che essi sono». Breton pone l’attenzione su questo presupposto, considerando le relazioni esistenti tra i fenomeni non come un aspetto tra gli altri, bensì come integralmente costitutive della modalità d’esistenza dei fenomeni stessi. Egli individua così la genesi di una tesi molto forte, specialmente dal punto di vista epistemologico, che reinterpreta la realtà in termini di informazione e comunicazione, proponendo una nuova visione del mondo globale e unificante, organizzata attorno al punto focale della comunicazione, tale da sfiorare tutte le discipline e contenente in germe la trasformazione della comunicazione in un valore di ampia portata sociale e politica. La novità di questa nuova concezione non risiede nel fatto che vengono posti in scena Informazione e Comunicazione, quanto piuttosto nel fatto che lo scambio di informazioni e relazioni è integralmente costitutivo dei fenomeni sia naturali che artificiali.

Per Breton i lineamenti dell’uomo comunicante, le sue caratteristiche, la sua “natura” sono iscritti nel modello disciplinare della Cibernetica, “scienza dei comandi, unificati, dei controlli dell’uomo e delle macchine”.

Attraverso la comunicazione – “ogni organismo è la somma delle informazioni che può scambiare nelle reti in cui può entrare”. Là si colloca l’idea che: “nella nuova società tutto è comunicazione”, costituendo la base di un discorso che possiamo definire utopico.

L’attacco al metodo funzionale classico, riguarda tutte le concezioni che postulano una qualunque interiorità dei fenomeni, affermando che tutto può essere spiegato in termini di relazioni, implicando quindi che tutto è posto all’esterno. Ogni fenomeno, o ogni essere, può essere paragonato metaforicamente ad una cipolla, come un insieme di esteriorità sovrapposte senza nucleo interiore, in quanto tutto ciò che è interno viene posto all’esterno; da ciò scaturisce anche la nuova concezione dell’Homo Communicans, un uomo ormai spogliato della sua interiorità, immerso nelle relazioni e negli scambi d’informazione con i suoi simili e con la struttura sociale. Questa potrebbe essere anche una spiegazione del successo dei media, l’attaccamento dell’uo­mo alla TV, o al computer: una nuova visione della realtà, anticipata dalla Cibernetica, ma di cui solo attualmente si sta prendendo coscienza; una ridefinizione dell’uomo e dei suoi rapporti con la realtà.

Inoltre Wiener, nel suo paradigma, spiega le ragioni per le quali la comunicazione deve diventare un valore centrale, in particolare per il timore dell’anomia. Questo paradigma si sviluppa intorno ad un’asse che contrappone l’informazione all’entropia, partendo dalla constatazione che tutti i sistemi chiusi sono minacciati dall’entropia. Ora, l’esatto contrario dell’entropia è rappresentato dall’informazione vivente che circola e che rende “aperti” i sistemi. Su questo punto si manifesta un considerevole ottimismo: se i canali vengono mantenuti ampiamente aperti, se può essere effettuato il trasferimento delle decisioni politiche a vantaggio di macchine capaci di apprendere, allora ci saranno le condizioni per l’istituzione di una società migliore. Tuttavia, dietro questo paradigma che sembra ragionare per dicotomie, informazione/comunicazione ed entropia, si presentano molte contraddizioni; infatti, se la stessa informazione diventa merce, l’entropia contro la quale sembra combattere si sviluppa in modo ancora più devastante. Questa contraddizione sembra indicare la direzione di alcuni mutamenti che non mancheranno di verificarsi. Stiamo così assistendo, secondo Breton, allo sviluppo di un nuovo fenomeno che conduce allo spostamento e all’assorbimento della parte essenziale delle attività umane all’interno del mondo dei media.

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Antropologia delle società complesse VIII

Identità e Narrazione

Ogni essere umano, durante il corso della propria vita, vive l’esperienza di conoscere dei propri simili. Tale conoscenza può avvenire attraverso varie modalità: l’interazione diretta, ovvero quella face to face, è la più comune. Ma non è certamente l’unica e neppure la più diffusa. L’accesso alla maggior parte delle persone che conosciamo avviene di fatto generalmente in modo indiretto, ovvero attraverso delle narrazioni che di essi ci viene fornita da qualcun altro. Tali narrazioni ci possono pervenire attraverso un racconto orale, la lettura di un resoconto, un diario, una lettera, o anche attraverso narrazioni supportate da immagini o addirittura da audiovisivi. A ben pensarci, inoltre, possiamo facilmente renderci conto che, anche di coloro di cui abbiamo più spesso un’esperienza personale diretta, conosciamo soprattutto le narrazioni di sé – o autonarrazioni – che, a seconda del grado di intimità, esse ci veicoleranno.

Volendo schematizzare, possiamo dire che, seguendo la felice espressione di Zygmunt Bauman, nel corso della nostra vita noi possiamo avere esperienza di quattro categorie di nostri simili: i consociati, ovvero persone con cui intratteniamo rapporti diretti (che, invero, rappresentano soltanto una minima parte di un ben più ampio insieme di persone); i contemporanei, che appunto sono la gran maggioranza delle persone con cui condividiamo lo stesso periodo temporale di esistenza senza tuttavia interagire mai direttamente con essi; i predecessori, ovvero coloro con i quali possiamo intrattenere rapporti di carattere soltanto unilaterale, nel senso che, essendo già morti, essi non sono in grado di interagire con noi, non possono aspettarsi risposte ai messaggi che loro invece ci hanno inviato con i loro lasciti, la loro eredità, attraverso la tradizione e la memoria collettiva; e infine ci sono i successori, ovvero coloro ai quali noi trasmettiamo dei messaggi senza però poterci attendere alcuna risposta, perché intanto il nostro tempo sarà esaurito e non avremo possibilità alcuna di poterlo condividere con essi.

Tutti questi esseri, che in un modo o nell’altro popolano le nostre esistenze, sono perlopiù conosciuti da noi attraverso un’esperienza che può essere definita “esperienza narrativa”. Possiamo ad esempio dire che un individuo nato quando i suoi genitori hanno trent’anni, avrà la possibilità di conoscerli direttamente soltanto in quelle che saranno le ore personalmente trascorse in loro presenza, condividendone cioè lo stesso spazio fisico. A ben vedere, ben poca cosa rispetto alla totalità degli anni della loro esistenza. Eppure, i propri genitori possono essere ragionevolmente considerati tra le persone meglio conosciute nella vita di ognuno, tra quelle con cui si instaurano i legami più stretti e diretti.

Il resto di ciò che di essi si giungerà a conoscere potrà essere trasmesso a quell’individuo solo ed esclusivamente attraverso delle narrazioni. Racconti relativi ai primi trent’anni della loro vita (in cui fisicamente egli non poteva esserci); poi racconti relativi ai suoi primi anni di vita (in cui, pur essendoci fisicamente, non ne aveva ancora maturato la coscienza necessaria); eppoi, successivamente, crescendo, racconti relativi a tutti quei periodi di “assenza, di mancata “co-presenza” fisica che, come è noto, con il passare degli anni sono in genere destinati ad essere sempre più ampi.

(… continua…)

(cfr. per approfondimenti, G. Pecchinenda, Homunculus, Liguori, Napoli 2008)

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Antropologia delle società complesse VII

La narrazione dell’identità

Come abbiamo detto, le teorie sulle quali si basano le immagini dell’identità del nostro senso comune, tendono tutte a sostenere che all’interno di ogni uomo ci sia una sorta di homunculus, ovvero un essere in miniatura che compie, in scala ridotta e non immediatamente manifesta, ciò che noi esteriorizziamo con i nostri comportamenti. La storia delle interpretazioni di questo homunculus, nelle sue svariate versioni è, come abbiamo già detto, molto antica ed ha accompagnato il significato sociale attribuito alla nozione di genio e di genialità ereditati dalla nostra cultura.

I personaggi omerici – come a suo tempo spiegava magistralmente Eric R. Dodds – riconoscono chiaramente una distinzione tra azioni normali ed azioni compiute in stato di ate. Questo ate, questo stato d’animo che indica «l’annebbiarsi o lo smarrirsi temporaneo della coscienza normale», viene nella cultura omerica attribuito non a cause fisiologiche o psicologiche, ma ad una o più entità esterne. Volendo essere più precisi, le azioni compiute in stato di ate vengono fatte risalire, indifferentemente, «o alla propria moira o alla volontà di un dio, secondo che consideravano la cosa dal punto di vista soggettivo o oggettivo». Ora, questa moira, pur non potendo essere considerata alla stregua di una vera e propria divinità personale, secondo l’accezione che, come vedremo, verrà successivamente diffusa nel mondo romano, rappresenta tuttavia un più che probabile antesignano del Genius, nonché delle cosiddette teorie dell’homunculus.

Ciò che va sottolineato attraverso questo riferimento è sia il retroterra di un’idea tuttora così centrale per la visione del Sé nella nostra cultura, sia – soprattutto – la dinamica delle trasformazioni di questa stessa idea. Mentre nella cultura omerica (come anche, molto probabilmente, nel pensiero primitivo in generale) questo homunculus occupava uno spazio sempre e comunque esterno al Sé, successivamente esso verrà via via sempre più interiorizzato. Prima, esso poteva essere più o meno vicino all’essere di cui manovrava le gesta, così come poteva penetrare in esso più o meno intensamente, ma derivava sempre e in ogni caso da un’esteriorità alquanto imprecisata che lo rendeva assolutamente “altro”: «il tratto più caratteristico dell’Odissea – scrive Dodds – è che i suoi personaggi attribuiscono ogni specie di accadimenti spirituali (e anche fisici) all’intervento di un demone, “dio”, o “dei”, anonimo e indeterminato. Questi esseri vagamente concepiti possono ispirare coraggio in un frangente, o togliere il senno, proprio come fanno gli dèi nell’Iliade. Ma si attribuisce loro anche uno svariato assortimento di ammonizioni, come potremmo approssimativamente chiamarle. Ogni volta che qualcuno ha un’idea particolarmente felice o sciocca, o identifica improvvisamente una persona, o gli balena il significato di un presagio; quando ricorda quel che avrebbe potuto dimenticare, o dimentica quel che doveva ricordare, egli, o un altro, vi riconoscono l’intervento psichico di un anonimo essere soprannaturale».

Una prima significativa trasformazione della dinamica dell’homunculus è quella che può essere riscontrata nel mondo romano, dove peraltro risiedono anche le radici etimologiche di ciò che verrà poi conosciuto in Occidente come Genio. Esistono due significati di questo termine, entrambi derivati dal latino, le cui sfumature sono però sostanzialmente diverse. Il primo ha a che fare con il “generare”, il “far nascere”; il secondo è riferito invece allo “spirito di una persona o di un luogo”, quindi implica il rimando a qualcosa o a qualcuno che ci influenza, determinando le nostre inclinazioni, la nostra capacità intellettuale o immaginativa. Il Genius, in questa seconda e certamente più diffusa accezione, era per gli antichi romani la divinità a cui ogni uomo veniva affidato alla nascita, il suo nume tutelare, motivo per il quale essi rendevano offerte al loro genius il giorno del proprio compleanno. Ed è qui che è possibile evidenziare una importante frattura rispetto alle interpretazioni ricordate in precedenza: in questo mutato universo simbolico si comincia a verificare un processo di vera e propria interiorizzazione del “genio” che, da entità esterna che di tanto in tanto invade un uomo, un luogo, un popolo o anche un semplice “oggetto”, comincia a trasformarsi in una qualità della persona, facendo apparire in essa un primo barlume di quella che successivamente diventerà la vera e propria individualità. Si comincerà cioè ad ammirare il “genio” di una persona inteso come talento specifico – o ingenium – che lo rende individuo perché in grado di portare a termine in modo irripetibile un’attività o un’arte. Si assiste in un certo senso, nella cultura romana, ad una degradazione del “Genio” in “genio”, inteso come dimensione sempre più umana presente nel singolo individuo, e del “genio” in “ingegno”, in un modo e in una forma tali da presentare al proprio interno «tanto l’accettazione esplicita dell’aspetto individuale-umano, quanto la censura del suo antico lato extraumano. L’ingegno (umano) viene inoltre gradatamente riconosciuto ed accettato soltanto nella misura in cui è al servizio di Dio; come la natura, del resto».

Nel corso di tutta la modernità – e fino ad oggi – la ricerca di questo luogo privilegiato del Sé, lo spazio della creatività, dell’immaginazione, del genius inteso non più come divinità che affianca l’uomo ma come una sua qualità superiore e intrinseca, diventerà uno dei percorsi più seguiti da filosofi, psicologi, sociologi e, più di recente, neuroscienziati. L’homunculus riapparirà così dapprima sotto forma di sostanza materiale, ma indipendente da altre sostanze, un’entità misteriosa che gestirebbe tutta l’organizzazione neuronale responsabile del funzionamento della mente, sia sotto forma di complesso meccanismo sinaptico alla cui analisi si stanno dedicando negli ultimi anni grossi centri di ricerca in tutto il mondo.

Quando nel XVII secolo Cartesio si era posto la questione del rapporto tra le due entità distinte e separate che costituivano l’uomo, quella mentale e quella fisica, aveva provato a risolvere il problema dell’homunculus, ovvero – in questo caso – il problema della “gestione” del corpo da parte della mente, ricorrendo alla ghiandola pineale, da lui considerata la sede dell’interazione mente-corpo, un luogo in cui i comandi provenienti dalla prima potevano influenzare il secondo, e dove l’informazione a partire dal corpo (relativa sia al corpo stesso che alla realtà esterna) poteva giungere alla mente sotto forma di percezioni, emozioni, conoscenza. Oggi, ad alcuni secoli di distanza, e al culmine di un articolato e controverso dibattito sul tema dell’inconscio – al quale faremo riferimento nel paragrafo che segue – le neuroscienze, accantonata definitivamente (almeno così pare!) l’idea di un possibile “luogo” dove la coscienza possa “accadere”, sembrano comunque ancora andare alla ricerca di una sorta di homunculus, o almeno di un qualche suo plausibile succedaneo.

I neuroscienziati condividono in genere una concezione materialistica del problema mente-corpo. Tale concezione va però ora letta in questo rinnovato modo: dato che la mente è un prodotto del cervello, si tratta di comprendere come il cervello possa rendere possibile l’esistenza di una mente. «Cartesio era nel giusto – scrive Joseph LeDoux, uno dei più accreditati neurobiologi contemporanei – quando pensava ai processi mentali inconsci in termini fisici; tuttavia, commetteva un errore nel concepire la coscienza come non fisica. Il fatto che i meccanismi cerebrali sottesi all’esperienza conscia non siano ancora stati spiegati, non significa affatto che essi rimarranno oscuri per sempre. In realtà, la ricerca più recente ha cominciato a compiere qualche progresso nella comprensione dei meccanismi cerebrali della coscienza». E il contributo di questo studioso su tale tema muove proprio nella direzione di spiegare i meccanismi biologici attraverso cui il cervello sostanzia e rende possibile il Sé, definendo quest’ultima versione dell’homunculus il Sé Sinaptico: «L’idea che il Sé – egli scrive – sia creato e preservato da arrangiamenti di connessioni sinaptiche (…) non sminuisce quelli che siamo. Fornisce invece una semplice e plausibile spiegazione di come sia possibile il pacchetto di protoplasma psico-spirituale e socio-culturale, enormemente complesso, che chiamiamo il nostro Sé».

Comunque le si voglia definire e comunque le si voglia collocare teoricamente, se affrontate dal punto di vista di questa ideologia dell’io, tali ipotesi, pur rispondendo a questioni significative relative al dove si trovi il Sé da un punto di vista locativo, non risolvono – né, per la verità, tentano di affrontarla – la domanda relativa al significato di tale presunta entità. E cioè: come fanno la ghiandola pineale, le connessioni sinaptiche, o una qualunque determinata area del cervello, a rendere un Sé quello che è? E soprattutto, come fanno a renderlo autocosciente? Per la verità è lo stesso LeDoux – dimostrando in tal senso, oltre ad una sicura onestà intellettuale, anche una manifesta volontà di apertura alle scienze umane e sociali – a suggerire un percorso: «per comprendere il Sé dobbiamo ancora spiegare in che modo gli apparati cerebrali sottesi a pensiero, emozione e motivazione (la trilogia mentale) si sviluppino sotto l’influenza della natura e della cultura, e in che modo questi sistemi ci consentano di gestire, percepire, apprendere, memorizzare e rievocare le esperienze. In particolare, avvertiamo la necessità di spiegare in che modo sistemi diversi interagiscano e s’influenzino reciprocamente. In assenza di tali interazioni, e senza l’integrazione mentale che esse producono, ciascuno di noi sarebbe soltanto una collezione di funzioni mentali più che una persona coesa».

Può a questo punto essere opportuno sottolineare quanto questo tipo di riflessioni facciano tornare alla mente la concezione humeana dell’io come fascio di percezioni non in connessione tra loro. È un richiamo che ritengo importante in quanto introduce e ricollega con una certa coerenza il tema appena affrontato del Sé come homunculus con quello del Sé come prodotto linguistico sul quale ci apprestiamo a riflettere. «Per parte mia – scriveva Hume – quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti, come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso». E ancora: ci vuol sempre una qualche impressione per produrre un’idea reale. Ma l’io, o la persona, non è un’impressione: è ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni e idee. Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io, quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, poiché si suppone che l’io esista in questo modo. Invece, non c’è nessuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente e non esistono mai tutte insieme. Non può essere, dunque, da nessuna di queste impressioni, né da alcun’altra, che l’idea dell’io è derivata: per conseguenza, non esiste tale idea». Da qui la nota conclusione di Hume secondo la quale la descrizione dell’io, qualunque cosa sia l’io, mostra l’uso di una finzione grammaticale.

L’aspetto che appare maggiormente degno di attenzione nella riflessione di Hume a proposito del nostro lavoro riguarda in particolar modo quest’ultimo elemento: in un certo senso è qui che noi ritroviamo le origini della fruttuosa ricerca, tuttora in grande espansione, sul rapporto tra linguaggio e autocoscienza, ricerca che ha annoverato Wittgenstein tra i suoi principali interlocutori. Considerare il Sé come un fenomeno principalmente linguistico, consente in qualche modo di salvaguardare e di integrare dialetticamente i cosiddetti aspetti fisici e mentali ereditati dalla concezione dualistica del Sé, evitando però di scomodare l’oramai improponibile versione essenzialista dell’homunculus, così caro alla nostra tradizione culturale.

Da una parte abbiamo dunque una serie di pratiche discorsive e dall’altra una serie di configurazioni neuronali che si autostimolano a vicenda, essendo assolutamente impensabili (se non dal punto di vista teorico) indipendentemente l’una dall’altra. Tale connubio, peraltro, non si identifica completamente con il cervello in quanto esso si colloca evidentemente al di là della dimensione del singolo, per confondersi a sua volta con il contesto sociale di riferimento.

L’autocoscienza individuale è però un fenomeno caratterizzato da intermittenze e irregolarità. I singoli e circoscritti episodi in cui gli esseri umani, ricollegando i diversi fenomeni autocoscienti, elaborano il loro senso unitario del Sé, non possono che essere spiegati facendo riferimento, come già evidenziato nelle pagine precedenti, alla questione della narrazione e dell’autonarrazione. Del tutto condivisibile risulta, a tal proposito, la seguente definizione: «L’autocoscienza è una specie di discorso con cui la nostra mente cerca di mettere insieme le diverse esperienze in cui il nostro corpo si trova (e si è trovato) coinvolto per renderle unitarie. L’autocoscienza, in questo senso, è una storia che si costruisce nella nostra mente – basandosi sulle conoscenze in suo possesso, sulle regole del linguaggio, sulle parole di cui dispone, sulla percezione dell’ambiente esterno – e in cui in qualche modo trovano posto tutte o quasi, o almeno quelle accessibili, le informazioni di cui la mente dispone». “In qualche modo”, perché queste storie molto spesso non sono né coerenti né vere, come nel caso delle spiegazioni del proprio comportamento che danno i pazienti che soffrono di determinate patologie di carattere cerebrale. Narrare a se stessi significa in questo senso fornire una coerenza linguistica – e dunque un’identità unica di riferimento – alle esperienze in cui ci si viene a trovare nel corso dell’esistenza.

(cfr. per approfondimenti, G. Pecchinenda, Homunculus, Liguori, Napoli 2008)


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Avviso

La lezione prevista per mercoledì 2 maggio è annullata. Il corso riprenderà mercoledì 9 maggio alle ore 11.00 (siete pregare di far circolare questo avviso tra i colleghi. grazie)

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Antropologia delle società complesse VI

Essere libero e, nello stesso tempo, non esserlo, è forse la più comune delle nostre esperienze. È anche, presumibilmente, la più sconcertante. È uno degli enigmi più profondi della condizione umana..

Molto, nella storia della sociologia e dell’antropologia può essere spiegato come uno sforzo continuo per affrontare e risolvere tale enigma.

Io sono libero: io posso scegliere e posso mettere in atto le mie scelte. Posso continuare a leggere oppure posso smettere e uscire con gli amici; posso fare di più: posso abbandonare il progetto di completare gli studi e decidere di mettermi alla ricerca di un lavoro – o di iscrivermi a un altro corso di studi… ed è proprio per il fatto che sono libero di decidere tra le varie alternative che entra in gioco un aspetto strettamente legato al concetto di libertà: la responsabilità, e in particolare la responsabilità individuale.

Se sei stato tu a decidere, di conseguenza sei responsabile delle conseguenze di tale scelta, di tale esercizio di libertà.

Se nessuno ti ha obbligato, solo tu sei responsabile.

Di fatto, però, la libertà è sempre limitata:

1)   dal fatto che altre persone sono in concorrenza con me per poter ottenere le stesse cose che io desidero ottenere (almeno fino a quando la quantità delle cose che si desiderano è inferiore al numero di persone che desiderano ottenerla.

Se questo è il caso, mi troverò coinvolto in una competizione il cui risultato non dipenderà soltanto ed esclusivamente da me.

Potrei ad esempio decidere di competere per un posto di lavoro all’università, per scoprire poi che vi sono altri venti candidati per ogni posto disponibile, e che molti di essi possiedono i requisiti richiesti e usano con accortezza la loro libertà …  cioè fanno ciò che, in una situazione del genere, ci si attende che faccia un candidato ad un posto di lavoro.

Troverò poi che il risultato delle mie e delle loro azioni dipenderanno da altri, ovver oda coloro che avranno il compito di decidere e giudicare chi dovrà ottenere quei posti disponibili.

Queste persone FISSANO LE REGOLE DEL GIOCO; sono anche gli ARBITRI, i GIUDICI delegati dalle ISTITUZIONI di riferimento per decidere chi dovrà essere il vincitore.

Essi detengono L’AUTORITA’ (a volte  IL POTERE) di decidere; a loro è delegata LA SCELTA di decidere (in questo caso il destino mio e degli altri concorrenti).

 La loro LIBERTA’ sembra segnare i confini della mia. IO (e gli altri nella mia situazione) DIPENDO dal modo in cui essi decidono (esercitano la loro libertà di scegliere). La loro libertà insinua un elemento di incertezza nella mia situazione. Si tratta di una fattore sul quale io non ho alcun controllo e che influenza pesantemente la riuscita dei miei sforzi.

 DIPENDO DA LORO PERCHE’ ESSI CONTROLLANO UNA TALE INCERTEZZA.

 2)   la mia libertà dipende inoltre da ciò che ho, da ciò che faccio, da ciò che sono stato in passato, o che non sono riuscito a fare (in termini di denaro e risorse economiche; rete di relazioni affettive e/o strumentali; abilità acquisite in termini sia formali che informali, etc…)

3)   un ruolo determinante in relazione a questa dialettica tra libertà e dipendenza è data dalle APPARTENENZE, dal gruppo (in genere dalla famiglia).

Lo stesso gruppo in cui mi sento come a casa, pone precisi limiti alla mia libertà – mi rende in effetti dipendente da esso nell’esercizio della mia libertà. È all’interno di questo gruppo che io sono capace di esercitare la mia libertà più pienamente.

Il mio gruppo, dopo avermi socializzato ai suoi modi di essere e ai suoi significati e valori, mi rende adatto ad esercitare la mia libertà. Limitando, allo stesso tempo, la pratica di tale liberta all’interno del suo territorio. Finché la mia libertà funziona, perciò, il gruppo di cui faccio parte gioca un ruolo ambivalente. Da una parte mi mette in condizione di essere libero; dall’altra mi reprime nel determinare i confini della mia libertà.

Generalmente il gruppo non è stato da me scelto liberamente. Io sono membro di un tale gruppo perché vi sono nato e perché al suo interno ho subito il mio processo di socializzazione primaria. Il territorio della mia libertà, insomma, non è stato scelto liberamente. Il gruppo che fa di una persona una persona libera, regola al contempo la mia libertà (i miei desideri, i miei scopi, le azioni che vorrei compiere e quelle da cui mi dovrei astenere) senza essere stata invitata a farlo.

Diventare membro di un tale gruppo non è stato un atto di mia libertà al contrario, è stata una manifestazione della mia dipendenza.

Guardando le cose più da vicino, e provando a schematizzare, l’inventario delle appartenenze determina quattro categorie di dipendenza:

a)    i fini o gli scopi (se si nasce in una famiglia della media borghesia, si ritiene che una buona educazione sia indispensabile per poter assicurarsi una vita rispettabile e agiata; in una famiglia di immigrati sarebbe diverso, in una famiglia del’alta borghesia o di operai anche…: io ricevo dal mio gruppo di appartenenza lo scopo su cui devo esercitare la mia capacità di una libertà di scelta, in base ai significati (ai valori) che adopero per cercare di raggiungere tali fini che il gruppo mi spinge a perseguire.

b)   Questi valori e significato sono forniti dal gruppo e costituiscono (attraverso l’INTERIORIZZAZIONE il mio “capitale privato”

c)    I criteri di rilevanza (l’arte di distinguere tra cose o persone che sono rilevanti o meno per il progetto che ho in mente (il mio gruppo mi guida a distinguere i miei alleati e i miei nemici o rivali… o quelli da trascurare…

d)   Infine la mia MAPPA DEL MONDO, la mia personale COSMOLOGIA (in cui inserie i miei progetti di vita, i percorsi da seguire etc.) in termini naturali (il senso della “realtà”)

Il discorso legato alla cosmologia verrà successivamente messo in relazione alle questioni legate alle dimensioni SPAZIALI e TEMPORALI della costruzione dell’identità (connesse a quelle che abbiamo definito essere “cosmografie” e “cosmogonie”)

Questioni che potranno in seguito essere meglio analizzate e approfondite attraverso l’uso della letteratura e della narrazione artistica.

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Antropologia delle società complesse (orari)

Prossime lezioni

DownloadedFile Gli orari delle prossime lezioni sono i seguenti:

Lunedì 23 aprile (11-13); Mercoledì 2 maggio (11-13)

Mercoledì 18 aprile non ci sarà lezione; Mercoledì 25 aprile è festivo

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Antropologia delle società complesse V

Identità e individualizzazione

– Una vecchia storiella indiana racconta di un capotribù che aveva ereditato la sua ascia di guerra dal bisnonno. A tale ascia – egli diceva – «mio nonno vi aveva sostituito il manico e mio padre vi aveva sostituito la lama!». Sembrerebbe quasi paradossale parlare, in questo caso, della trasmissione intergenerazionale di un semplice oggetto materiale, di un semplice strumento.

Se il “manico” e la “lama” non sono più gli stessi, come si può sostenere che il capotribù abbia ereditato la stessa “ascia” dei suoi progenitori se non riconoscendo ad essa una qualche “anima”, uno “spirito vitale” o comunque una qualche “unicità” di carattere immateriale? Sbaglierebbe chi cercasse di rintracciare in un qualunque aspetto materiale dell’attrezzo il significato di questa sua “unicità”.

Ad una mente razionale e illuminata, ad una mente “moderna”, il fatto che un semplice attrezzo possa essere investito di questo vero e proprio mana potrebbe apparire come la testimonianza di un atteggiamento oramai superato, un residuo di derivazione magica, da considerarsi più o meno alla stregua di una sorta di superstizione da affrontare con scherno se non con una punta di positivistica indignazione. Il fatto, insomma, che ad un’ascia o a un qualunque altro strumento possa essere riconosciuta un’identità così specifica e unica è un chiaro indicatore di arcaicità mentale, con tutti i connotati valutativi che, pressoché automaticamente, questo rimando implica.

Tali riferimenti mi auguro siano utili al fine di precisare gli ambiti del fenomeno identitario in relazione al concetto di individualizzazione, ovvero di quello che deve essere considerato l’aspetto più specifico e caratterizzante della formazione dell’identità occidentale moderna e delle sue trasformazioni nel corso della contemporaneità.

In altri termini, non intendo occuparmi di cosa sia “uno” strumento, ma di come e perché venga costruito socialmente il processo attraverso il quale tale attrezzo giunge ad assumere, e poi successivamente a perdere, quelle caratteristiche così specifiche e individualizzate tali da renderlo non solo “unico”, ma anche dotato di un “suo” valore autonomo, qualcosa che somiglia molto ad una “personalità” indipendente da ogni possibile rapporto con gli altri e con la realtà circostante.

Potrebbe forse apparire azzardato, se non equivoco, questo accostamento tra l’essere umano e un qualunque utensile da lavoro, ma mi preme sottolineare l’esistenza di un fenomeno che ritengo essere assai indicativo: quello del rapporto inversamente proporzionale, proprio della cultura occidentale moderna, tra l’attribuzione di una personalità sempre più individuale e specifica all’identità umana, da una parte, e la progressiva neutralizzazione e de-potenziamento di tutto il resto del mondo circostante – dagli elementi naturali (dagli astri agli alberi e alle piante) a quelli artificiali e strumentali, un tempo considerati veri e propri “esseri animati” (dotati cioè di uno spirito vitale) se non addirittura delle divinità – dall’altra.

Forse sarà superfluo, ma vale comunque la pena ricordare che fino a non molto tempo fa – comunque pochissimo, se ragioniamo in termini secolari – anche nell’ambito della tradizione culturale da cui discendiamo i comportamenti collettivi e individuali venivano in gran parte determinati dagli umori o dalle intenzioni di elementi che oggi consideriamo, in un’accezione del tutto neutrale, “naturali”: il sole, la luna, un fiume, il vento, un serpente o un toro…

Ed è proprio verso questo rapporto pneumatico di “svuotamento-riempimento” di un presunto “principio vitale” degli elementi che costituiscono la nostra realtà sociale, che sarebbe opportuno volgere più specificamente lo sguardo al fine di poter spiegare il significato del concetto di identità in una prospettiva sociologica.

La sensibilità manifestata nel corso degli ultimi anni da alcune tra le principali scuole sociologiche nei confronti del processo di individualizzazione è d’altra parte un evidente indicatore della centralità che tale tema è venuto assumendo nell’ambito del dibattito scientifico contemporaneo. È di fatto assolutamente inscindibile il legame che, nel tempo, si è venuto a costituire tra l’emergere delle attuali forme della società occidentale, individualizzazione e formazione dell’identità moderna, così come appare evidente il legame di tali fenomeni e la costruzione sociale dei concetti di “persona” e “personalità”.

«A partire dalla famosa definizione di Boezio, secondo cui una persona è “l’esistenza individuale di una natura ragionevole”, la filosofia ha tentato di distinguere le caratteristiche in base alle quali noi definiamo “persone” determinati esseri. Questi tentativi vanno in due direzioni. In un caso mirano alla precisazione di ciò che in Boezio viene chiamato rationabilis, “ragionevole” (…). Nell’altra linea interpretativa del concetto di persona viene posto al centro il carattere sociale dell’essere persona. La relazione di riconoscimento reciproco è qualcosa di costitutivo per le persone. Le persone non sono tali in virtù di pure caratteristiche di specie, essere persona è uno status coinvolto in un evento comunicativo». Ed è proprio nell’ambito di questa seconda linea interpretativa che è possibile trovare alcuni dei più significativi contributi all’analisi delle trasformazioni inerenti questo fondamentale processo socio-culturale.

Se in Durkheim il tema della progressiva “differenziazione” e “separazione” degli individui dai gruppi e dalle istituzioni di riferimento era già considerato come uno dei cardini esplicativi del passaggio da un tipo di società “tradizionale” ad una più “moderna”, sarà nel suo discepolo Marcel Mauss che ritroveremo alcuni dei primi contributi specifici sul problema della “persona” nell’ambito del processo di individualizzazione. Tra le sue ricerche più note sono certamente da annoverare quelle relative all’analisi della natura storica e sociale della nozione di “Io”, in cui, nel ripercorrere l’evoluzione del concetto di “persona” nel corso dei secoli, viene evidenziato, tra l’altro, il fatto che nelle attuali società primitive, così come nelle società occidentali pre-moderne, l’idea di “persona” in quanto individuo è diversa da quella di “personaggio”.

In queste società l’individuo, possedendo un “insieme di posizioni” (status) all’interno della struttura sociale, risulta avere un’identità costituita né più né meno che dalla somma di tali “posizioni”. Egli, cioè, avendo una precisa collocazione all’interno di una rete di relazioni sociali, possederà un’identità che tenderà a coincidere con questa collocazione personale: ovvero nient’altro che un “insieme di ruoli”.

Come William James aveva già a suo tempo opportunamente messo in evidenza, il significato di “persona” nell’antichità greco-romana era molto diverso da quello che oggi gli attribuiamo. Il concetto stesso di “personalità”, d’altra parte, neppure esisteva. Norbert Elias, dal suo canto, ha richiamato l’attenzione sul fatto che solo un equivoco di natura linguistica potrebbe far coincidere nozioni così diverse. «Il concetto latino di persona – egli chiarisce – potrebbe apparire un equivalente del recente “individuo”, ma quello latino non ha assolutamente lo stesso, elevato livello di generalizzazione e lo stesso grado di sintesi (…). Naturalmente, gli antichi Romani sapevano come presumibilmente sanno tutti che ciascuna persona ha le sue caratteristiche. Sapevano che Bruto era differente da Cesare, Ottaviano da Antonio, e senza dubbio anche in che modo lo erano. Ma tra gli strati creatori di linguaggio della loro società, e soprattutto tra i detentori del linguaggio scritto, evidentemente non si sentiva il bisogno di un ampio concetto universale che affermasse che ciascun individuo, qualunque fosse il gruppo cui egli o essa appartenevano, era una persona autonoma, unica e differente da tutte le altre, e che esprimesse al tempo stesso tutto il valore annesso a tale unicità».

«La persona dietro alla quale l’attore del teatro antico nascondeva il proprio vero volto – sottolinea a sua volta Gourevitch –, non presupponeva una personalità, come non la presupponeva la persona giuridica astratta, il segno della piena capacità giuridica, che nel diritto romano portava la denominazione di persona. Il pensiero antico vedeva nella persona prevalentemente il ruolo sociale, assegnato dalla società all’uno o all’altro dei suoi membri. Questo concetto si riferiva alla sfera del teatro e della procedura giudiziaria, ma non al campo della psicologia. Allo stesso modo il concetto di “carattere”, character, di senso affine a quello di persona, era legato alla sfera psichica solo in quanto su di essa era impresso qualcosa, allo stesso modo in cui il sigillo lascia l’impronta sul materiale (la parola character significava anche “stigma”, “marchio”, “impronta”). Questi concetti si distinguono per la loro staticità, indicando all’uomo o al gruppo di uomini il posto loro destinato nell’ambito del sistema. L’identità della personalità viene definita dal di fuori, prestabilita dalle istituzioni e dai rapporti oggettivi, ma non rappresenta la soggettività, l’unità dell’esperienza personale vissuta interiormente». Françoise Frontisi-Ducroix, sempre su questo significativo tema, precisa: «Per designare le loro maschere sceniche, rituali e cultuali, i greci utilizzano il termine pròsopon. Il termine pròsopon, però, significa prima di tutto “viso”. Non c’è dunque differenziazione linguistica tra maschera e viso. Ciò implica che le due nozioni non siano oggetto di un apprendimento distinto; e soprattutto che non esiste – come nelle lingue e nelle culture occidentali odierne – un’opposizione fondamentale fra maschera e viso, dato che l’una è pensata come qualcosa che copre e dissimula l’altra».

In altre parole, ciò che qui interessa evidenziare è il fatto che in tali tipi di società non si potrebbe parlare – secondo i diversi autori – di vera e propria individualizzazione, in quanto non esisterebbe alcuna discrepanza tra identità socialmente definite e percezioni personali dell’identità. La cosiddetta realtà oggettiva sarebbe cioè così pervasiva all’interno del singolo, da rendere impossibile la formazione di una realtà soggettiva, ovvero l’emergere di un punto di vista personale di distacco e quindi di presa di coscienza individuale.

Ed è proprio sulla falsariga di queste riflessioni sulla “persona”, direttamente riprese dall’opera di Marcel Mauss, che Gino Germani è giunto a formulare, nel corso degli anni Settanta dello scorso secolo, quello che può essere considerato uno dei più originali e significativi tentativi di sistematizzazione teorica del processo di individualizzazione in ambito sociologico. Individualizzazione, per Germani, significa acquisizione di una forma di autocoscienza che implichi una «chiara percezione del sé come di un individuo separato, completamente differente da tutti gli altri sé del mondo», nonché il senso di un’identità personale caratterizzata da autonomia e unicità. Sulla base di una tale definizione e ripercorrendo il pensiero di alcuni importanti studiosi, il sociologo italo-argentino proporrà una serie di analisi dalle quali è possibile far emergere le seguenti conclusioni: a) L’individualità non è un dato assegnato, ma il frutto di un processo storico-sociale; b) gradi diversi di individualizzazione corrispondono a diverse tipologie di struttura sociale; c) il processo di individualizzazione non è necessariamente progressivo e unilineare.

Non sarebbe del tutto errato, credo, considerare tali conclusioni una premessa indispensabile per chiunque voglia oggi affrontare il tema dell’individualizzazione da un punto di vista sociologico.

Ciononostante, le diverse considerazioni sull’evoluzione di tale processo, così come state presentate finora, potrebbero far ipotizzare anche alcune altre conclusioni alquanto fuorvianti. Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che proprio una cultura che – come ha fatto notare Frontisi-Ducroix – oltre ad aver inventato il teatro ha elaborato anche (proprio a partire dal nome dell’attore, hypokritès) il concetto di ipocrisia, sia il viso ad essere pensato come una maschera, come un involucro in carne ed ossa che nasconde i pensieri e i sentimenti reali di ognuno, celando nel segreto dell’interiorità l’intima coscienza di ogni individuo.

Una tale ipotesi sarebbe totalmente priva di fondamento perché, da un punto di vista storico-cronologico, anticiperebbe la presenza di un concetto, assolutamente fondamentale nell’ambito della presente analisi, come quello di coscienza interiore. La cultura antica, e quella greca in particolare è – come è stato appena ricordato – una cultura dell’esteriorità, una cultura dell’onore e della vergogna. Il che significa, in buona sostanza, che l’uomo – e non ancora l’individuo – prende coscienza di sé dall’esterno, attraverso lo sguardo dell’altro, di un alter ego che a sua volta, reciprocamente, si riconosce attraverso di lui. Il medium di questa relazione riflessiva è il pròsopon, il viso, il cui significato etimologico “davanti agli occhi (altrui)” è centrale. Il pròsopon è qualcosa di “dato a vedere”, di visibile, che costituisce parte integrante e inscindibile di una cultura che non dissocia in alcun modo il vedere dall’essere visto, stabilendo una equivalenza assoluta tra la funzione visiva e il suo oggetto.

«Questo pròsopon “viso”, che si definisce come ciò che viene proiettato sotto gli occhi degli altri può, ovviamente, velarsi, dissimularsi, truccarsi, nascondersi, rifiutarsi, situazioni che hanno sempre un loro significato. Ma non ha in sé come funzione quella di occultare. È, al contrario, il rivelatore diretto dei sentimenti, dei pensieri e del carattere. C’è coincidenza fra il viso e ciò che noi chiameremmo la vita interiore».

Secondo Antonio Cavicchia Scalamonti, se si considerano alcune delle varie forme o tipologie assunte dall’individualizzazione nel mondo occidentale, come ad esempio quella relativa all’affermazione e al valore assunto proprio da questa “vita interiore” (la coscienza, realtà interna o foro interiore, ovvero il cosiddetto nucleo dell’identità, o ideale dell’Io, che nel corso della storia occidentale verrà acquisendo denominazioni diverse), ci si può rendere conto che il problema cessa di essere solamente quello riferito alla durkheimiana differenziazione o separazione del Sé (processo necessario ma non totalmente sufficiente), ma si impone anche, e forse soprattutto, quello dell’unicità o, almeno, dei vari gradi d’essa.

Ora, l’unicità, per potersi pienamente esplicitare, richiede ben altro, e tale “altro” si può comprendere soltanto facendo riferimento a quella che resta la più significativa e rivoluzionaria delle esperienze del mondo occidentale: le pratiche connesse alla sua religione monoteistica e, in particolare, alle radici ebraiche d’essa, che avrebbero promosso in modo assolutamente originale la nascita e lo sviluppo dell’individuo moderno.

È possibile affermare che sarà solo con il cristianesimo che verrà definitivamente sottolineata l’istituzionalizzazione dell’individuo. Nei termini finora accennati, il processo di “iniziazione” cristiana, l’ingresso dell’uomo “naturale” nella comunità dei credenti, sancisce l’acquisizione del “codice culturale” della Christianitas, dei suoi principi e delle sue norme, trasformando la vecchia persona in personalità. Pur riconoscendo insomma il fondamentale riferimento ad una serie di più o meno generiche trasformazioni strutturali e tecnologiche che hanno accompagnato e, in alcuni casi, reso possibile il realizzarsi del processo di individualizzazione, bisogna ammettere che sarebbe impossibile comprendere adeguatamente la straordinaria ed assolutamente eccezionale (nel senso, ovviamente, etimologico del termine) peculiarità dell’identità occidentale senza riferirsi al cristianesimo e alla sua filosofia.


 

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Antropologia delle società complesse

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Lunedì 16 aprile (11-13); Lunedì 23 aprile (11-13); Mercoledì 2 maggio (11-13)

Mercoledì 18 aprile non ci sarà lezione; Mercoledì 25 aprile è festivo

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aprile 14, 2012 · 12:45 PM

Antropologia delle società complesse III-IV

Interiorizzazione e costruzione sociale dell’identità

– Quando in una società ci si trova di fronte ad un nuovo venuto, sia esso un neonato o un estraneo già più o meno adulto, emerge un problema che può essere considerato generalmente condiviso da ogni cultura: il problema della sua identificazione.

Ogni società sufficientemente strutturata possiede normalmente degli strumenti finalizzati a mettere in atto tale processo di identificazione, che consiste innanzitutto nell’attribuzione di un’identità secondo criteri precisamente prestabiliti, tradizionalmente imposti e trasmessi di generazione in generazione. Ciò significa che ogni società assegna ai propri membri un’identità oggettiva attraverso la quale quel determinato soggetto potrà essere identificato da tutti gli altri componenti della collettività in questione, nonché – ovviamente – dalle istituzioni stesse. I criteri di base comunemente più adatti a tale operazione sono, ad esempio, il sesso, l’età e l’appartenenza familiare, da cui scaturiscono nomi, cognomi, soprannomi. È evidente – come insegna la teoria sociologica classica – che, con l’aumento della complessità della propria composizione interna, le società vedono moltiplicarsi il numero dei criteri necessari ad una più adeguata riuscita di tale processo di identificazione.

Il riferimento all’attribuzione di una determinata identità oggettiva appare però manifestamente insufficiente per poter esaurire un qualunque discorso sull’identità. Una delle caratteristiche più significative del fenomeno identitario, che rende peraltro così complessa e delicata ogni sua trattazione, è legata al fatto che nessuna identità umana può essere descritta, né tanto meno spiegata o compresa, in termini puramente oggettivi. Esiste difatti anche un’identità intesa in senso soggettivo, che si presenta nel momento in cui un membro che entra a far parte di una collettività comincia ad appropriarsi delle definizioni oggettive di sé che la società – attraverso le istituzioni preposte (a cominciare dalla socializzazione familiare) – gli ha attribuito.

Se l’identità può essere considerata la conseguenza di un precedente processo di identificazione, va però anche chiarito che non è per nulla scontato che un membro di una società si accontenti di aderire completamente alla definizione che gli viene attribuita secondo criteri stabiliti dall’esterno, il che vuol dire, utilizzando il vocabolario appena introdotto, che non necessariamente l’identità oggettiva e quella soggettiva risulteranno essere completamente congruenti. Anzi, diciamo pure che solo in via teorica è possibile ipotizzare il caso di una eventuale completa congruenza. Dal punto di vista empirico esisteranno sempre dei margini di discrepanza tra tali possibili definizioni identitarie ed è proprio da tale constatazione che è possibile prendere le mosse per un adeguato approccio al nostro tema.

Ai nostri fini sarà necessario, dunque, provare a riformulare le precedenti definizioni in termini analitici più precisi: L’identità deve essere considerata, sociologicamente, la conseguenza di una relazione dialettica tra una identificazione oggettiva, da una parte, e una percezione soggettiva di tale identificazione, dall’altra.

Va ricordato altresì come oramai già da tempo la teoria sociologica sia brillantemente riuscita a disfarsi di ogni concezione dualistica del rapporto tra società e individuo e, conseguentemente, di ogni possibile visione “essenzialista” dell’identità. Basti per tutti il riferimento, che possiamo considerare oramai pressoché imprescindibile per ogni sociologo, all’opera di Norbert Elias. Ed è sulla falsariga di tali operazioni concettuali che bisogna interpretare la precedente definizione dell’identità in termini puramente dialettici e processuali e senza alcun riferimento a presunte ed improbabili “entità” fisse e stabilite una volta per tutte.

Da questa premessa possiamo dunque per il momento acquisire i primi elementi in vista di una definizione più articolata del nostro oggetto di studio, elementi che fanno riferimento innanzitutto all’impossibilità di ogni riferimento all’identità, sia personale che collettiva, che prescinda dalle sue relazioni con altre componenti sociali: non può esistere cioè identità senza identificazione, né identificazione senza differenziazione con ciò che viene considerato “Altro”.

Un ulteriore elemento acquisito è poi quello per il quale l’identità personale, al pari di quella collettiva, non deve essere considerata un dato naturale, ma il frutto di un processo di costruzione sociale dialetticamente strutturato. Le origini intellettuali di quello che possiamo già delineare come un approccio relazionale allo studio dell’identità, possono essere facilmente fatte risalire agli inizi del XX secolo e si ricollegano direttamente, almeno per quanto concerne le sue formulazioni essenziali, al lavoro di due studiosi americani, Charles Horton Cooley e, soprattutto, George Herbert Mead. Bisogna però anche ricordare che le radici storiche di tale approccio, su cui non ci soffermeremo nell’ambito di questo corso.

Secondo tale paradigma, come abbiamo già accennato, l’identità deve essere appunto considerata una sorta di entità riflessa, ed ogni epoca storica assisterebbe all’affermazione di una particolare tipologia identitaria costruita in base al reciproco rapporto dialettico tra un polo “oggettivo” dell’identità (ciò che la società si attende che uno sia) ed uno “soggettivo” (ciò che il soggetto ritiene di essere).

Queste due polarità possono ovviamente essere definite separatamente solo ai fini teorico-analitici; di fatto esse si co-producono reciprocamente, determinandosi, di epoca in epoca, in base ad una serie di diversi fattori socio-psicologici.

Ora, se vogliamo rintracciare una peculiarità propria della cultura occidentale, la possiamo ritrovare proprio nella forma assunta dalla dialettica tra questi due poli identitari. Storicamente, almeno fino al Medioevo, la discrepanza tra definizione oggettiva e soggettiva del Sé era assolutamente insignificante o, quando essa emergeva, interessava soltanto una parte assai ridotta della popolazione, in genere le élites. Solo successivamente, e solo nella specifica cultura occidentale, si comincerà a creare quel “gioco” dell’identità in cui tra la definizione “esterna” del Sé e quella “interna” si insinuerà uno spazio in cui qualcosa d’altro potrà finalmente instaurarsi. Questo qualcosa sarà l’idea di un’identità individualizzata, ovvero unica, autonoma, originale, diversa da ogni altra possibile manifestazione umana.

Tra i miei amici d’infanzia ho il chiaro ricordo di un bambino che, nel periodo in cui ci frequentavamo, stava sfortunatamente vivendo il traumatico evento della separazione dei propri genitori. Tra i tanti motivi alle origini della discordia tra i suoi, pare ci fosse quello relativo al nome di battesimo attribuito al proprio figlio. Fin dalla nascita gli erano stati infatti assegnati due nomi diversi, quello del nonno paterno e quello del nonno materno e – chiaro indicatore di separazione imminente, oltre che di evidente immaturità dei due… – i genitori si accanivano nel chiamare il povero ragazzino ognuno con il nome del rispettivo genitore. A parte i profondi disagi nella gestione della quotidianità (il disgraziato, posto di fronte alla solita domanda che si pone ai bambini, «come ti chiami?», rispondeva: «se mi chiama mamma il mio nome è Giulio, se mi chiama Papà il mio nome è Michele»), disagi che si sarebbero poi tramutati in profondi traumi esistenziali, quello che si stava verificando sulla pelle dell’ignaro giovinetto può essere considerato un chiaro esempio di “identità non realizzata”, ovvero di una parziale ma significativa incongruenza tra identità oggettivamente assegnata e identità soggettivamente acquisita.

È evidente infatti che nessuna identità può dirsi sufficientemente realizzata se non si verifica almeno una certa congruenza tra la sua definizione oggettiva e la sua definizione soggettiva. Fin quando esiste soltanto una definizione imposta dall’esterno, casomai variabile, come in questo specifico caso, l’acquisizione soggettiva dell’identità diviene quanto meno improbabile. E lo stesso vale anche nel caso contrario: il mondo pullula di persone che forniscono una definizione della propria identità che non corrisponde per niente a quella che la società è disposta a riconoscergli. Gli ospedali psichiatrici sono in genere molto frequentati da persone che sostengono in buona fede di essere Napoleone Bonaparte; ciononostante essi “non sono” Napoleone Bonaparte. O almeno non lo sono fin tanto che non trovino un certo numero di persone disposte ad accettare tale stato, e quindi ad attribuire una certa validità oggettiva ed un certo “sostegno” a tale definizione identitaria, cosa che, tornando al caso citato, potrebbe appunto accadere con buone probabilità solo all’interno di una istituzione delegata alla cura della cosiddetta igiene mentale. La differenza sostanziale tra la costruzione riuscita di un’identità reale e quella di un’identità illusoria è facilmente comprensibile con riferimento ai termini appena descritti.

In Africa occidentale vige un detto che grossomodo recita così: le persone di una persona sono numerose in ogni persona. «Mia madre – scrive Amadau Hampaté Ba per spiegare la complessità interiore degli uomini del suo paese natale –, quando voleva vedermi, aveva l’abitudine di chiedere a mia moglie “quale delle persone di mio figlio abita qui oggi? Il toubab, l’uomo di religione oppure mio figlio?” Se mia moglie rispondeva “tuo figlio” allora entrava in casa, senza cerimoniali e mi diceva cosa voleva. Se diceva “è l’uomo di Dio”, mia madre si limitava a fare proposte, ma se mia moglie rispondeva “Il toubab”, allora mia madre ripartiva senza neppure provare ad incontrarmi».

In una celebre ricerca dell’antropologo francese Maurice Leenhardt sulla cultura melanesiana, è stato fatto notare come la nozione di “persona” avesse un rapporto con gli esseri in carne ed ossa cui si fa riferimento con tale concetto assai diverso da quello cui noi occidentali siamo stati abituati. Diciamo innanzitutto che il melanesiano sembra avere un’idea prevalentemente “tecnica” del corpo. Per lui il corpo è una sorta di sostegno che serve da appoggio a ciò che viene definito il kamo, termine a cui non è molto agevole trovare un solo sinonimo, ma che con qualche forzatura può essere tradotto con il nostro “personaggio”. In genere il kamo ha la forma di un essere umano, è l’uomo nel suo insieme, ma può anche essere tutt’altro. Lo stesso uomo non è delimitato ai propri occhi; come abbiamo ricordato, il suo stesso corpo non è altro per lui che un generico sostegno.

Egli non si riconosce cioè che per la relazione che ha con gli altri componenti del suo gruppo sociale. Dunque si può dire che la sua esistenza è tale solo nella misura in cui egli svolge il suo ruolo nel gioco delle sue relazioni.

Date queste condizioni, non esiste, né potrebbe esistere, un qualcosa di simile ad una cosiddetta identità soggettiva. Quest’ultima, infatti, tende a sovrapporsi in misura pressoché totale all’identità oggettiva. Tra l’una e l’altra il possibile “gioco” identitario diviene impraticabile. Dati “n” individui (“a”, “b”, “c”, … “n”), ognuno di essi esisterà solo nella sua relazione corrispondente (“a-b”, “a-c”, “b-c”, …): “egli” e suo padre, “egli” e suo zio, “egli” e sua moglie, “egli” e suo figlio, “egli” e il suo clan, con la notevole conseguenza che quando non si troverà in relazione con qualcuno – evento anche questo assai improbabile – il membro di tale gruppo non sarà in grado di riferirsi a se stesso, di dire “io”. Ovvero, “egli” non sarà in grado di dire «“io” sono», «“io” penso», oppure «“io” agisco». Inoltre – come sottolinea lo stesso Leenhardt – in ciascuna delle relazioni i personaggi, assumendo un aspetto diverso, hanno bisogno di un nome nuovo. In pratica non esiste un unico nome che possa ricoprire l’insieme delle relazioni possibili per ogni persona. Questi assumerà infatti in ogni circostanza un nome diverso.

Nel cinema di Woody Allen c’è un film – Zelig – che narra la storia, ambientata nell’America della fine degli anni Venti del Novecento, di quello che può essere considerato uno dei più celebri precursori del modello identitario postmoderno, ovvero di un individuo ammalato di “camaleontite”, vera e propria metafora di quella che è stata definita da più parti come la condizione dell’uomo contemporaneo, una tipologia emergente sostanzialmente diversa da quella moderna da cui pure deriva alcuni tratti.

Se l’uomo tipico della modernità aveva reagito al continuo aumento della differenziazione sociale e del numero di ruoli che egli stesso era stato chiamato ricoprire nel corso della sua esistenza, rifugiandosi nella solida rigidità della sua corazza interna – ritenuta per molti versi unica e impenetrabile –, l’individuo postmoderno rappresentato in Zelig comincerà invece a mostrare un’identità molto più permeabile ed elastica: posto di fronte al sempre più accelerato mutamento della società in cui si trova a dover agire, nonché dei sempre più numerosi ruoli che in essa è tenuto a dover interpretare, l’uomo camaleonte è costretto a distorcere in modo talvolta esasperato la propria presunta unicità identitaria, al fine di adattarla alle troppo volubili circostanze. Egli diventa così una persona completamente diversa a seconda dei luoghi e delle persone con cui si trova ad interagire, un essere insomma per molti versi simile ai melanesiani studiati da Leenhardt.

Quella di Zelig può essere considerata soltanto una delle tante possibili metafore che hanno accompagnato negli ultimi decenni i tentativi di spiegazione e di ridefinizione del concetto di identità, tentativi resi necessari dalla diffusa sensazione che, date le profonde trasformazioni sociali e tecnologiche che hanno investito il mondo occidentale già a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ci si cominciava a trovare agli albori di una vera e propria fase di radicale mutazione antropologica.


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