MEMORIA AUTONARRAZIONE E IDENTITA’
Nel 1995 viene ad esempio pubblicato in Germania un libro destinato a destare molto scalpore. Si tratta di Bruchstücke (Frammenti), ed è la storia dell’infanzia di un piccolo ebreo – Binjamin Wilkomirski –, sballottato attraverso gli orrori dell’Europa nazista tra il 1939 e il 1948, narrata dall’autore stesso.
In breve tempo il libro si impone all’attenzione della critica come un vero e proprio capolavoro sulla Shoah. Viene tradotto in diverse lingue, il suo autore viene invitato presso grandi università e prestigiosi centri di ricerca internazionali, suscitando ovunque una grande commozione nel suo sempre più numeroso pubblico, attratto e coinvolto dalla straordinaria partecipazione emotiva di questo sopravvissuto alle prese con la storia del proprio drammatico passato.
Un bel giorno, però, un’inchiesta scaturita da una lettera inviata da un giornalista all’editore tedesco Suhrkamp, comincia a far insinuare un clamoroso dubbio: quel passato di cui si narra nel libro, non corrisponderebbe a quello del suo autore. In altri termini, Binjamin Wilkomirski non sarebbe in realtà chi sostiene di essere, bensì un impostore che risponderebbe al nome di Bruno Dössekker, un anonimo musicista svizzero. Trascorsa una breve pausa di indignazione per tali insinuazioni, l’autore decide di rispondere alle sempre più pressanti richieste di chiarimento da parte dell’opinione pubblica, precisando che in realtà i suoi genitori adottivi, una coppia di svizzeri benestanti – i Dössekker, appunto – avevano effettivamente provveduto a questa falsificazione di identità al fine deliberato di cancellare ogni possibile traccia di quell’orrendo – ma autentico! – passato di cui egli narra nel libro.
Sulle prime non ci furono in effetti molte difficoltà a rendere credibile tale versione dei fatti: si trattava di un’operazione amministrativa di modifica delle generalità alla quale erano stati sottoposti centinaia e centinaia di figli di deportati, a fini semplicemente protettivi. Ciononostante, pur di rendere sempre più trasparente l’intera vicenda, l’editore tedesco richiede ulteriori approfondimenti, dando il via ad una serie di nuove indagini che, imprevedibilmente, finiranno però per rendere sempre più traballante la versione proposta dall’autore.
Credendo di porre un punto finale alla vicenda, Wilkomirski/Dössekker decide allora di aggiungere un poscritto al suo libro, che desterà non poco scalpore: “Durante la mia infanzia mi è stata attribuita una nuova identità. Un nuovo nome, un’altra data di nascita e un altro luogo di nascita. Secondo il certificato che ora ho tra le mani – egli afferma – io sarei nato il 12 febbraio 1941. Tale data, però, non corrisponde né alla storia della mia vita, né ai miei ricordi. Ho anche provato a fare ricorso alla giustizia contro questa identità arbitraria. La verità legalizzata è una cosa, quella di una vita è un’altra”.
A partire da allora, liberato oramai il tarlo del sospetto, cominciano a susseguirsi una lunga serie di ulteriori inchieste giornalistiche e giudiziarie, in base alle quali cominceranno ad accumularsi dati, testimonianze e documentazioni che condurranno infine all’emergere di una versione della storia assai sorprendente e ben diversa da quella fino ad allora conosciuta.
Ciò che risulterà sarà infatti che fino al 1979 l’autore del libro era stato un “semplice” cittadino svizzero, figlio adottivo di una coppia come tante altre. Alla ricerca delle sue radici, Bruno aveva finito per appropriarsi – a causa di una complessa serie di circostanze – di una nuova identità: da allora aveva cominciato a farsi chiamare Binjamin, a riconoscersi giorno per giorno sempre più nelle proprie (anche se solo ipotetiche!) radici ebraiche, aveva cominciato ad andare alla ricerca dei suoi genitori (ad un certo punto della vicenda ci sarà anche un vero e proprio riconoscimento di paternità da parte di un ebreo sopravvissuto alla Shoah) e del vero luogo della sua presunta nascita. A seguito di una cura psicoterapeutica – che a quanto pare risulterà essere determinante ai fini di alcuni dei più clamorosi risvolti assunti dalla vicenda – a partire dagli inizi degli anni Novanta cominceranno anche a riaffiorare in lui una serie di ricordi relativi alla sua infanzia nei campi. Da allora Bruno si convincerà sempre più a fondo di essere in realtà Binjamin, un sopravvissuto di Auschwitz.
Quando, in un modo o nell’altro, tutto sembra cominciare a spiegarsi, da una delle tante inchieste parallele emerge però ancora un’altra versione dei fatti: la nuova pista condurrebbe addirittura alla scoperta di un’altra origine dell’autore di Frammenti. Egli sarebbe nato in Svizzera, a Biel, da una madre celibe che, a causa di problemi personali, lo avrebbe dato in adozione ai Dössekker. Il suo nome originario sarebbe Bruno Grosjean e la data di nascita lo stesso 12 febbraio 1941, così come già attestato dai documenti ufficiali presentati dallo stesso autore. A questo punto i tentativi di rendere compatibili le versioni precedenti con quella emersa diventano sempre meno credibili. Si è in presenza di una vera e propria versione menzognera, che subisce un definitivo colpo di grazia dalla testimonianza diretta di un’altra sopravvissuta ai campi, Karola, una giovane donna che il piccolo (autentico!) Binjamin aveva conosciuto ad Auschwitz. Karola è categorica: la storia della deportazione tracciata nel libro non è altro che una versione un po’ fantasiosa della sua stessa storia che in un’occasione lei aveva raccontato al giovane Dössekker.
Bruno non è Binjamin, ma solo un musicista svizzero che lei aveva effettivamente incontrato casualmente su un treno, nel lontano 1971. Mescolando i ricordi della sua infanzia autentica da orfano, con le testimonianze di altre infanzie sopravvissute ai campi e con eventi tratti presumibilmente da film e documentari sulla Shoah, Bruno era diventato a poco a poco il romanziere della sua stessa scomparsa, l’autore e il personaggio principale di un racconto fortemente drammatico.
Per poter sopravvivere psicologicamente il musicista si era così ben incorporato nel proprio racconto da apparire come un’incarnazione vivente di questo libro unico, finendo con l’agire più che come un soggetto attivo del proprio disegno menzognero, come una sorta di oggetto passivo della propria falsificazione, soggiogato dal suo stesso inganno: “la creatura – insomma – aveva superato il suo creatore”.
L’editore tedesco finirà per ritirare il libro dal commercio, e il caso passerà ai tribunali. Ciò che però mi sembra assai significativo ed esemplare ai nostri fini è qualcos’altro. Mi sembra infatti, questa, una vicenda molto adatta a creare un ponte tra le diverse interpretazioni finora discusse a proposito della teoria sociologica dell’identità. Se, da una parte, si tratta di una storia di impostura e di sostituzione identitaria molto simile a quella del già citato Martin Guerre, essa presenta anche non poche assonanze con dei veri e propri casi patologici, come quelli studiati da Lurija. Più significativo ancora mi sembra però il modo in cui emerge l’intensa complessità del rapporto tra memoria, autonarrazione e identità.
Indipendentemente dalla “buona fede” dell’autore stesso nella gestione dell’intera vicenda, non si può non sottolineare la presenza di un fenomeno molto noto agli specialisti: l’atteggiamento che caratterizza molti orfani e bambini adottati i quali, crescendo, vengono lacerati dalla curiosità per le loro autentiche origini. Si tratta di una “fame di genealogia” che molti studiosi non temono a definire “insaziabile”.[ii] E molto spesso a guidare sempre più indietro la ricerca di un passato e di un’origine non è soltanto il bisogno di sapere, quanto soprattutto un bisogno di raccontare e di raccontarsi.
In questo caso, posti di fronte ad una scelta, quali sono i criteri da adottare per decidere quale tra le identità emerse, sia quella più “reale”?
Ripercorriamo più dettagliatamente alcuni momenti della vicenda: abbiamo innanzitutto tre cognomi e due nomi (Binjamin Wilkomirski, Bruno Dössekker e Bruno Grosjean) per un solo corpo. Oggettivamente, all’anagrafe, Binjamin Wilkomirski non è mai esistito. O meglio, se è esistito (come è assai probabile), non può essere messo in relazione al corpo di Dössekker/Grosjean. Sempre da un punto di vista anagrafico e istituzionale, è possibile rilevare una coerenza identitaria tra gli altri due. L’individuo dichiarato all’anagrafe come Bruno Grosjean, ha ricevuto, per motivi legittimi e certificati, una sostituzione di cognome. Fin qui tutto chiaro.
Subentra però adesso il secondo momento che caratterizza la costruzione sociale dell’identità: la percezione soggettiva di colui che possiede e gestisce quell’unico corpo, è assolutamente estranea da ogni possibile riferimento a Bruno Grosjean. La sua identità è basata sulla costruzione di una coerenza tra un Binjamin Wilkomirski che, in un secondo momento, viene modificato in Bruno Dössekker.
Se ci si affida alle testimonianze di Karola e della madre naturale (Grosjean), entrambe ancora vive, sembrerebbe non esserci dubbio: Bruno Dössekker è un nome diverso che serve ad identificare quello stesso individuo che una volta si chiamava Bruno Grosjean. In tal caso questa stessa persona non sarebbe altro che un impostore da biasimare e, forse, anche da rinchiudere in un apposito istituto di detenzione per criminali (se non per psicopatici). Se però lasciamo aperto il dubbio al peso dei ricordi, della memoria e della ricostruzione fatta, a quanto pare, in buona fede e con l’aiuto di validi psicoterapeuti (se insomma decidiamo di affidarci anche alla percezione soggettiva del Sé), allora l’interpretazione può essere diversa: l’individuo che oggi viene istituzionalmente identificato con il nome di Bruno Dössekker, una volta si chiamava Binjamin Wilkomirski.
Avvezzi a tutte le possibili straordinarie avventure del Doppio che hanno contribuito a forgiare, attraverso la letteratura, il nostro immaginario collettivo, sembra quasi di trovarsi di fronte alla trama di un romanzo di un E.T.A. Hoffmann, o di un Chamisso, uno Stevenson, di un Oscar Wilde, se non di Poe, Dostoevskij o Kafka. Eppure non si tratta di fiction. Così come – sempre a proposito di Doppelgänger – non è una fiction la straziante storia di Jean-Claude Romand raccontata da Emmanuel Carrère in un bel volume che, ad oggi, ha direttamente ispirato non meno di tre riuscitissime opere cinematografiche.
Siamo agli inizi del 1993. I fatti si svolgono nella regione di Gex, nella provincia francese al confine con la Svizzera, in una cittadina residenziale a pochissimi chilometri da Ginevra. Jean-Claude Romand è un affermato ricercatore che ricopre una posizione di prestigio nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra, padre affettuoso di due bambini, Caroline e Antoine, di sette e cinque anni, nonché marito pressoché esemplare della bella e sempre sorridente Florence, che lavora in una farmacia del paese. Una bella famiglia, insomma, assolutamente normale e benvoluta da tutti. Tra i co-protagonisti dell’inquietante vicenda figurano anche i genitori di lui, quelli della moglie, alcune comparse e, soprattutto, il migliore amico del dott. Romand – Luc Ladmiral – anch’egli medico e anch’egli sposato con figli. Le due famiglie, come è ovvio, sono molto unite e si frequentano spesso. Luc non è peraltro “un” amico come tanti; egli è l’amico per eccellenza, quello che ha condiviso con lui i segreti più intimi dell’adolescenza e degli studi universitari; quello che gli è stato vicino nei momenti più intensi di gioia e di sofferenza; insomma i due rappresentavano l’un per l’altro quello specchio nel quale veder riflessi gli aspetti più profondi del proprio Sé, quelli che casomai avresti difficoltà a svelare anche a te stesso. Almeno questo è ciò di cui Luc era convinto!
Poi la tragedia! La casa dei Romand prende fuoco. I soccorritori portano fuori ad uno ad uno i quattro componenti della famiglia, tutti gravemente ustionati. Tutti morti, tranne uno, Jean-Claude, che riuscirà alla fine a sopravvivere. Ma non è tutto: alcune ore dopo la polizia scopre che anche i genitori del dott. Romand, e il loro cane, sono morti. Di lì a qualche giorno un’altra, sconvolgente, macabra scoperta: nessuna delle morti in questione risulta essere accidentale. Gli inquirenti si trovano di fronte ad una serie di omicidi. Le prove sono schiaccianti, l’assassino è proprio Lui! Il dott. Romand sulle prime oppone una strenua resistenza, poi crolla e confessa di aver brutalmente ucciso la moglie, i due bambini, il padre, la madre e il loro cane. Successivamente, aveva dato fuoco alla propria casa, in un disperato e maldestro tentativo (ma sulle sue “reali” intenzioni permangono tuttora molti dubbi) di suicidio.
Come è potuto accadere? Gli inquirenti cercano di far luce sul passato di Romand per venirne a capo; gli amici e i conoscenti – in particolare Luc – credono di star vivendo un incubo dal quale prima o poi si sveglieranno. Non si era forse illuso, e con lui tutti i suoi concittadini, che fosse sufficiente una professione ben remunerata, una famiglia serena, una bella macchina da sostituire periodicamente, delle vacanze rilassanti, per potersi sentire “normali” e al sicuro dall’aggressione di ogni possibile violenza irrazionale? Cosa c’era allora dietro al dott. Romand, nascosto dentro di lui? I giornalisti si scatenano, alla ricerca di risposte esaurienti. Si avanzano delle fragili, benché razionali, ipotesi, che puntualmente vengono smentite. Allora un’unica possibilità resta plausibile, il ricorso al capro espiatorio della “doppia identità”, della “follia” celata dietro la parvenza normale dell’irreprensibile dottore. Possono risultare pertinenti in questo caso le parole che Paolo Crepet ha utilizzato per introdurre l’analisi foucaultiana di un’altra vicenda simile, verificatasi in Francia quasi due secoli prima, il celebre caso di Pierre Riviére: «quando un ragazzo – egli scrive – uccide senza motivo, ecco scattare l’alibi di un Dna patologico o di qualche condotta impulsivo-compulsiva che assomiglia a un “raptus”. Già, il raptus; come farebbero i giornalisti a spiegare quell’assassinio se non utilizzando questa parola che contiene la più vergognosa auto-assoluzione di massa? Il “raptus” (come il determinismo biologico o psicoanalitico) assolve tutti perché promette di trovare una vera e unica causa (il capro espiatorio) per quegli atti inumani, così non c’è e non si deve ricercare alcuna correità nella famiglia, nella scuola, nel quartiere, negli amici: tutti felicemente assolti».
Ma Luc, l’amico, il vero amico, non ci sta! Collabora con gli investigatori e con lo straordinario Emmanuel Carrère, contribuendo a far venire alla luce almeno alcuni di quegli eventi chiave, di quei turning point che, nell’esistenza di ognuno di noi, possono determinare un percorso esistenziale piuttosto che un altro. Forse ciò che ne è venuto fuori, le spiegazioni che emergono dalle ricostruzioni effettuate, non aderiranno perfettamente alla cosiddetta realtà storica, ciononostante – così come nel caso di Binjamin – quello che maggiormente conta nella formazione di un’identità è soprattutto il sentimento di coerenza e di adeguatezza del proprio Sé soggettivo rispetto alle istanze oggettivamente attese.
Ancora una volta quell’insaziabile bisogno di raccontare e di raccontarsi riaffiora imperioso. «Mediante la narrativa costruiamo, ricostruiamo, in certo senso perfino reinventiamo, il nostro ieri e il nostro domani. La memoria e l’immaginazione si fondono in questo processo. Anche quando creiamo i mondi possibili della fiction, non abbandoniamo il familiare, ma lo congiuntivizziamo trasformandolo in quel che avrebbe potuto essere e in quel che potrebbe essere. La mente umana, per quanto esercitata sia la sua memoria o raffinati i suoi sistemi di registrazione, non potrà mai recuperare totalmente e fedelmente il passato. Ma nemmeno può sfuggirgli. La memoria e l’immaginazione servono da fornitori e consumatori delle reciproche merci».
Ed è pressappoco ciò che accade con la ricostruzione della vita di Jean-Claude Romand.
Nei giorni successivi alla tragedia viene ritrovato un biglietto d’addio con il quale Jean-Claude chiedeva scusa e, tra l’altro, scriveva: “Un banale incidente, un’ingiustizia possono provocare la follia”. Diventava quasi un dovere ricercare quell’evento scatenante, individuare quel punto di svolta nella vita dell’assassino. Durante il dibattimento in aula, l’imputato Romand ricostruisce la genesi della sua follia muovendo dal giorno a partire dal quale in lui si sarebbe insinuato un altro “io”; dal momento in cui aveva intrapreso la strada della menzogna senza poterla più abbandonare. Si tratta del giorno di un fatidico esame all’università, preceduto da una caduta per le scale che gli aveva procurato una frattura del polso: un “banale incidente”, appunto.
«Il mattino dello scritto le lancette della sveglia hanno segnato in sequenza l’ora in cui si sarebbe dovuto alzare, l’ora d’inizio delle prove e l’ora della fine. Lui è rimasto a guardarle, steso sul letto. Dopo aver consegnato i compiti, gli studenti si sono ritrovati all’uscita dell’aula o ai tavolini dei bar per chiedersi com’era andata. Nel primo pomeriggio i genitori di Jean-Calude gli hanno telefonato per rivolgergli la stessa domanda, e lui ha risposto che era andata bene. Nessun altro l’ha chiamato.
Fra il giorno dell’esame e l’esposizione dei risultati, sono passate tre settimane. Tutto era ancora in sospeso. Poteva ancora confessare di aver mentito. Naturalmente non sarebbe stato facile, doveva costare moltissimo a un ragazzo serio come lui riconoscere di aver commesso una simile bambinata (…). Da una parte c’era la strada normale, quella che seguivano i suoi amici, gli studi per cui, come tutti confermano, aveva attitudini leggermente superiori alla media. Dall’altra, c’era il sentiero tortuoso della menzogna. (…). Non sostenere un esame e affermare di averlo passato è una sfida audace, il rilancio azzardato di un giocatore. L’esito non può che essere negativo: essere smascherati quanto prima e scacciati dall’università coprendosi di infamia e di ridicolo, le due cose al mondo che più lo spaventavano. Eppure esisteva un’ipotesi peggiore: proprio quella di non essere scoperto. Ma come poteva immaginarlo? Come poteva immaginare che quella bugia puerile lo avrebbe portato diciott’anni più tardi a massacrare i suoi genitori, Florence e i figli che ancora non aveva?»
Da allora in poi, secondo quella che oggi appare come la ricostruzione più verosimile della vita di Jean-Claude Romand, era cominciata la sua doppia vita. Per diciotto anni aveva mentito a tutti: aveva finto di essersi laureato, poi aveva cominciato a fingere di andare al lavoro, si era sposato, aveva messo al mondo due figli, aveva continuato ad intrattenere relazioni più o meno profonde con amici, parenti, colleghi mostrando a tutti un versante puramente convenzionale di sé. «Di norma – commenta Carrère – una bugia serve a nascondere una verità, qualcosa di vergognoso spesso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand».
Per diciotto anni aveva finto, tutte le mattine, di andare al lavoro o di partire per un viaggio d’affari, mentre invece trascorreva il suo tempo chiuso in auto a leggere giornali o a passeggiare nei boschi; per diciotto anni, al fine di mantenere un tenore di vita compatibile con il rango della sua falsa identità, aveva spillato grosse somme di denaro a parenti ed amici con il pretesto di investirli per loro in una banca Svizzera. Talvolta era stato sul punto di dover far fronte a qualche richiesta di rimborso, ma alla fine era riuscito sempre a cavarsela, grazie alla menzogna, con una certa abilità. Negli ultimi tempi (e a quanto pare questa vicenda avrà una funzione significativa nel determinare il crollo nervoso finale) aveva intrapreso una relazione amorosa abbastanza seria ed appassionata con Corinne, una vecchia ed affascinante amica, ed anche da lei era riuscito a farsi consegnare del denaro, mentendo spudoratamente per lungo tempo, senza tradire la benché minima difficoltà.
Al termine del processo Jean-Claude Romand verrà condannato all’ergastolo, con ventidue anni di misura di sicurezza. Certamente, insomma, non uscirà di prigione prima del 2015, all’età di sessantun anni. Ma questo è, ai fini del nostro discorso, pressoché irrilevante. Può invece essere piuttosto pertinente e utile riportare, a conclusione di questa riflessione sullo straordinario caso dell’Avversario, alcuni brani tratti da uno scambio epistolare intervenuto già a processo chiuso, tra Emmanuel Carrère e lo stesso Jean-Claude Romand:
Carrère (21/11/96): «(…). Il nemico da vincere è la sua capacità di accedere a se stesso, quel vuoto che ha continuato a crescerle dentro precludendole la possibilità di dire “io”. È chiaro che non spetta certo a me dire “io” a nome suo, perciò non mi resta che dirlo a nome mio, parlando di lei».
Romand (10/12/96): «(…). Arrivo a intuire fino a che punto sia essenziale sentire dentro di me una parola che trovi conferma e risonanza in chi mi ascolta. Il fatto che lei non riesca a parlare della mia storia in prima persona mi sembra in parte legato alla difficoltà che ho io a parlare di me stesso in prima persona. Anche se riuscirò a ottenere questo risultato, sarà troppo tardi, ed è terribile pensare che se avessi avuto accesso all’”io” e di conseguenza al “tu” e al “noi” a suo tempo, avrei potuto dire tutto quello che avevo da dire senza che la violenza rendesse poi il dialogo impossibile».
Al di là dei casi specifici che ho provato a sintetizzare attraverso questi esempi, risalta in entrambe le vicende il peso determinante che il bisogno di raccontarsi in modo coerente, agli altri, ma forse soprattutto a se stessi, può svolgere nell’ambito del processo di costruzione di ogni identità. Un’importanza molto spesso sottovalutata, a favore di altre componenti ritenute centrali per l’elaborazione di una coerenza identitaria, e che va ben al di là dei singoli casi più o meno fraudolenti, se non patologici, cui di tanto in tanto veniamo a conoscenza personalmente o attraverso casi di cronaca.
D’altra parte sono tanti i personaggi che nel corso della nostra esistenza conosciamo soltanto “indirettamente”, ovvero solo grazie alle mediazioni di “altri”, sia che questa mediazione avvenga attraverso il contributo dei racconti di persone in carne ed ossa, sia che si verifichi attraverso meri strumenti tecnologici, come può essere la scrittura (e quindi la lettura di un diario o di una lettera riferite alla persona in questione), la fotografia, la registrazione audio e/o video.
Va dunque prestata la massima attenzione al fatto che l’influenza maggiore o minore che tali personaggi potranno avere per la costruzione della nostra identità, non dipenderà tanto dai rapporti fisici che potremmo o meno intrattenere con essi, ma da un altro genere di rapporto, che possiamo definire anch’esso di tipo narrativo. I nomi di alcuni celebri personaggi letterari – ad esempio un Aureliano Buendia, un Artemio Cruz o un Gregor Samsa – ci rinviano ad individui la cui conoscenza è per molti di noi molto più “reale” di quanto non lo sia, ad esempio, quella di un parente non conosciuto direttamente, de visu, come potrebbe essere il caso di uno zio vissuto sempre all’estero, o di un nonno morto prima della nostra nascita.
La narrazione, come abbiamo già ricordato, può essere definita come la rappresentazione di un evento o di una serie di eventi. Ora, la differenza tra gli eventi e la loro rappresentazione è la stessa che esiste tra una storia (l’evento, appunto o la sequenza di eventi) e un discorso narrativo (il modo in cui la storia viene rappresentata). Facendo un passo in avanti, al di là delle definizioni, è possibile in un certo senso sostenere che noi non possiamo mai avere alcuna esperienza diretta di una storia, ma possiamo accedervi soltanto attraverso un discorso narrativo; in altri termini, una storia è sempre una storia ‘mediata’ – da una voce, da uno stile di scrittura, da una determinata angolazione della camera da presa, dall’interpretazione degli attori – il che significa che ciò che noi chiamiamo storia è in realtà sempre qualcosa che noi (o qualcuno per noi) abbiamo costruito. La storia è sempre costruita e mediata da un discorso di tipo narrativo. Allo stesso modo, a costo di rischiare qualche forzatura, è possibile sostenere che anche l’accesso alla personalità di coloro con cui interagiamo nel corso della nostra esistenza è in prevalenza mediato narrativamente. Anzi – ed è questo uno dei punti essenziali – si può dire che lo stesso vale anche per l’esperienza della conoscenza che noi facciamo di noi stessi attraverso il discorso autobiografico.